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Sommario (prima parte): 1. La necessità di una riforma della esecuzione della pena pecuniaria. – 2. Brevissimi cenni sul sistema precedente. – 3. L’art. 660 c.p.p. del codice Vassalli e le vicende della procedura esecutiva. – 4. Funzione  del pubblico ministero nel procedimento di esecuzione. – 5. Il procedimento disegnato dalla riforma Cartabia. – 6. Il p.m. e il ruolo di avvio del procedimento. Problemi in tema di legittimazione attiva. – 7. La procedura: Gli adempimenti preliminari alla emissione dell’ordine di esecuzione/ingiunzione. – 8. Il contenuto dell’ordine di esecuzione/ingiunzione.

1. La necessità di una riforma della esecuzione della pena pecuniaria

Con l’art. 1 comma 16 della legge delega (l. 134/21 “per  l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”) il legislatore delegante  richiedeva  di “restituire effettività” al sistema delle pene pecuniarie attraverso 1) la razionalizzazione/semplificazione della procedura di esecuzione delle pene pecuniarie 2) la revisione del procedimento di conversione e 3) la previsione di procedure efficaci sul  piano amministrativo.

Questo perché, fino ad allora, come evidenziato nei dati della Relazione illustrativa al decreto legislativo 150/2022, la procedura esecutiva  aveva dimostrato una tale inefficienza ed ineffettività da far venir meno, di fatto, lo scopo afflittivo delle pene pecuniarie, spingendo alcuni interpreti a propugnare un consistente ridimensionamento del ricorso a tale tipo di sanzione. Ciò per una serie di motivi, che la Relazione illustrativa – richiamando il monito proveniente da più parti, tra cui la Corte costituzionale e la Corte dei conti – riporta in modo analitico.

Il sistema è stato definito dalla Corte costituzionale nella sentenza 279/19 (e poi ribadito nella sentenza 15/20) “farraginoso  e complesso: a fondamento di tale impietosa definizione – come evidenziato dalla Relazione al decreto legislativo –  il fallimento della visione  tradizionale  che costruisce l’esecuzione della pena pecuniaria come un credito da recuperare, al pari delle spese di giustizia, seguendo la procedura di esazione prevista per le imposte non pagate e i crediti erariali. Sin dal codice Zanardelli, l’esecuzione della pena pecuniaria era inserita infatti – al pari delle spese di giustizia – in un sistema di recupero crediti di natura  civile e amministrativa complesso e dispendioso che, attraverso passaggi ed intervento di soggetti diversi con enorme dispendio di energie, ha sempre prodotto risultati estremamente limitati  anche in relazione agli investimenti fatti.

La riforma, modificando l’art. 660 c.p.p., rovesciando la  visione tradizionale, ha l’obiettivo di semplificare ed accelerare la procedura, anche allo scopo di  rendere la pena pecuniaria  una alternativa “credibile” alla pena detentiva e, per quanto possibile, ridurne la naturale iniquità. Se questo sarà possibile, dipenderà dalle energie messe in campo: certamente la persona priva di mezzi avrà poca scelta tra il pagare e dover sottostare ad una sanzione, e la mancanza di dimora potrebbe ostare alla applicazione della “detenzione domiciliare sostitutiva”, ma se lo Stato investe nel lavoro sostitutivo è possibile che la sanzione consegua  realmente effetti risocializzanti.

2. Brevissimi cenni sul sistema precedente

Come ricostruito con attenzione nella Relazione al d.lgs. 150/2022, lo scopo della procedura esecutiva era il recupero delle somme comminate a titolo di sanzione, indipendentemente se il motivo del mancato pagamento derivasse dalle condizioni economiche del condannato o da semplice inadempimento. Solo  in caso di impossibilità si procedeva a conversione:  il nucleo concettuale del sistema si poggiava infatti  sulla distinzione tra il  condannato (definitivamente) ” insolvibile”, cioè del tutto incapiente, e il condannato “insolvente”, cioè volontariamente non adempiente, che in caso di documentate difficoltà temporanee poteva ottenere una ratizzazione o dilazione.

Il principio, commutato dal codice sardo del 1859 (artt. 67 e 68) si ritrova in altri ordinamenti di cultura giuridica francese, tra cui il code de procédure pénale che anche attualmente (art. 707) prevede l’esecuzione dei beni per mancato pagamento delle sanzioni.

Il binomio insolvibilità/insolvenza era  già presente nel codice Zanardelli del 1889 che, per il primo, prevedeva il potere del pubblico ministero o del pretore di procedere con decreto a  conversione della pena pecuniaria in privazione della libertà personale o lavoro sostitutivo  (art. 19), per il secondo, disponeva di proseguire l’escussione, ad opera degli organi amministrativi, con il duplice scopo di “fare cassa” e di evitare, per quanto possibile, la detenzione. Era prevista anche la possibilità di ottenere una rateizzazione in favore di chi dimostrasse la propria solvibilità “con certificati di catasto o di ipoteche” ovvero presentasse un fideiussore, onde evitare la conversione[7].

Il codice Rocco – previlegiando il recupero della pena comminata –  si limitava ad inasprire le conseguenze della insolvibilità, disponendo all’art. 136 c.p. la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva quando fossero accertati non solo l’inadempimento ma anche la definitiva incapienza del condannato e, “se ne è il caso”, la incapienza del civilmente obbligato per l’ammenda, affidando l’onere della conversione sempre al pubblico ministero o al pretore (art. 586 c.p.p.), sulla base di accertamenti del cancelliere e dell’ufficiale giudiziario sulla presenza di beni nel patrimonio del destinatario (art. 40 disp. att. c.p.p. approvate con r.d. 28 maggio 1931, n. 602)[8].

Il sistema dei codici Zanardelli e Rocco attribuiva al p.m.  una funzione di verifica attiva della situazione economica del condannato e della capacità di far fronte ai suoi debiti, funzione pienamente decisoria.   All’attività dell’organo dell’esecuzione (p.m. o pretore)  viene  riconosciuta piena natura giurisdizionale anche  dalla Corte costituzionale,  che nella sentenza 108/87 ( e già prima nella sentenza 53/68)  ha osservato come spetti a tale organo l’accertamento del presupposto della conversione, la “insolvibilità”, accertamento che non si può basare su una mera accettazione acritica delle conclusioni degli organi amministrativi incaricati della materiale esazione[9].  In precedenza, la Corte costituzionale, intervenendo sulla legittimità costituzionale dell’art. 136 c.p., laddove consentiva di procedere a conversione sulla base della sola dichiarazione di fallimento del condannato, aveva già evidenziato come il p.m. avesse il compito di verificare in concreto l’insolvibilità attendendo la chiusura della procedura fallimentare[10].

Dopo l’attribuzione del potere di conversione alla magistratura di sorveglianza, l’art. 102 della legge 689/81,  ha ridisegnato   la procedura (e le pene applicabili in caso di conversione) , non toccando però l’ambito del sistema esecutivo “primario”, volto al recupero del credito: a seguito della fase propedeutica “amministrativa” finalizzata alla constatazione oggettiva dell’inadempimento, affidata alla cancelleria del giudice e all’agente della riscossione, il p.m. o il pretore trasmetteva copia del provvedimento al magistrato di sorveglianza del luogo di residenza del condannato, il quale non operava alcuna verifica dei presupposti della conversione,  ma   curava esclusivamente l’esecuzione della misura, disponendo  l’applicazione della libertà controllata o, su richiesta del condannato,  la ammissione al lavoro sostitutivo e determinandone le relative modalità di svolgimento. 

3. L’art. 660 c.p.p. del codice Vassalli e le vicende della procedura esecutiva

L’art. 660 del codice Vassalli, al primo comma, semplicemente rimanda le modalità esecutive della pena pecuniaria ai “modi stabiliti da leggi e regolamenti”. La disciplina della procedura era contenuta negli artt. 181 e 182 disp. att. c.p.p. nonché negli articoli 102 e seguenti della legge 698/81. Il sistema vedeva una prima fase,   “amministrativa”, affidata alla cancelleria del giudice della esecuzione e al concessionario per la  riscossione, volta alla intimazione al pagamento al condannato e al recupero forzato del dovuto  attraverso il pignoramento dei beni,  cui ne seguiva un’altra,  eventuale,  avente natura  “giurisdizionale”[11],  al cui centro poneva il magistrato di sorveglianza,  che, su iniziativa del p.m., provvedeva alla conversione, questa volta  previa  verifica della effettiva  “insolvibilità”,  stabilendo con il medesimo provvedimento le modalità di esecuzione. Lo strumento esecutivo primario, in caso di mancato pagamento, era ancora l’escussione con i mezzi consentiti dal codice civile, mentre la conversione agiva esclusivamente come “alternativa punitiva” in caso di impossibilità.

Nella fase “amministrativa”, il soggetto chiamato alla esecuzione era la cancelleria del giudice della esecuzione, o “campione penale”: entro  trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale di condanna  la cancelleria  notificava al condannato l’estratto della sentenza in forma esecutiva o il decreto unitamente all’atto di precetto contenente l’intimazione di pagare entro dieci giorni dalla notificazione o, se si tratta di decreto, dalla scadenza del termine per proporre opposizione, le somme in esso specificamente indicate per pena pecuniaria (e spese).  L’avviso di pagamento e il precetto per le pene pecuniarie pagabili ratealmente precisavano l’indicazione dell’importo e della scadenza delle singole rate, da cui decorreva il termine per il pagamento.

Scaduti i termini, l’ufficio procedeva ad iscrivere a ruolo la pena (cioè il credito),  e interessava il concessionario per la riscossione. Il concessionario operava con gli strumenti dell’erario, vale a dire pignoramento dei beni e  ad esecuzione forzata dell’”insolvente”. La normativa di riferimento era  costituita dal  d.P.R. n. 602 del 1973 come modificato dal d.lgs. 26 febbraio 1999 n. 46, e  dal  d.lgs. 13 aprile 1999 n. 112, concernente il riordino del servizio nazionale della riscossione, che  disciplina le modalità di affidamento del servizio di riscossione, la vigilanza sui concessionari, i diritti e gli obblighi del concessionario.

 In caso di infruttuosa esazione, di mancanza di beni su cui operare il pignoramento, di mezzi con cui pagare (“l’insolvibilità”) il concessionario interessava nuovamente la cancelleria della esecuzione, che comunicava l’esito al p.m.  al fine di trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione.

Il binomio insolvibilità/insolvenza elaborato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità[13],  si riflette nei riferimenti nel secondo comma dell’art. 660 c.p.p. alla “accertata impossibilità di esazione” come presupposto per la trasmissione degli atti e conversione e nel terzo comma  alla possibilità del magistrato di sorveglianza di concedere il differimento e rateizzazione in presenza di situazioni di temporanea “insolvenza”. Temporanea insolvenza che, secondo la giurisprudenza[14], potrebbe emergere già a partire dalla fase “amministrativa” della procedura, al momento dell’invito al pagamento, cioè, in cui il condannato può rivolgersi  immediatamente al magistrato di sorveglianza per ottenere la rateizzazione,  prima dell’avvio, ad opera del p.m. della procedura  di conversione.

Nel 2002 viene  emanato il t.u. spese di giustizia (d.P.R. 115/2002), che disciplinava in modo più puntuale la procedura per la riscossione delle pene pecuniarie.  Il soggetto chiamato alla esecuzione era sempre la cancelleria del giudice della esecuzione (art. 208). La procedura della esecuzione era analoga a quella precedente[15]. Gli articoli 223 e 224 richiamavano espressamente la già citata normativa sulla  riscossione tributi a mezzo ruolo ( il d.P.R. n. 602 del 1973,  come modificato dal d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 ed il d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112). Inoltre, nel  tentativo di rendere il sistema più efficace,  negli artt. 237 e 238  il t.u. innovava radicalmente  la disciplina del procedimento di conversione, affidandola al giudice dell’esecuzione anziché al magistrato di sorveglianza. Con l’art. 299 si abrogavano infatti  gli artt. 660 c.p.p. e 181 e 182 disp. att. c.p.p.

La modifica aveva breve durata. Infatti già dal giugno 2003 la Corte costituzionale (sentenza n. 212/2003) dichiarava l’ incostituzionalità  per eccesso di delega  degli articoli  237, 238 e 299 del T.U., determinando così la reviviscenza della disciplina dettata dagli artt. 660 c.p.p. ( e  secondo parte della dottrina anche dell’art. 182 disp. att. c.p.p.)[16] e restituendo la competenza a procedere alla conversione al magistrato di sorveglianza.  

Sempre con la medesima finalità di accelerare la procedura, questa volta con lo scopo di  sollevare il “campione penale” da alcune incombenze, la legge finanziaria del 2008 all’articolo 1, commi da 367 a 372 disponeva che la gestione dei crediti relativi a spese e pene pecuniarie fosse affidata ad una società interamente posseduta da Equitalia s.p.a., previa stipula di un’apposita  convenzione con il Ministero della Giustizia. Una volta notificata la sentenza e ingiunto il pagamento da parte del “campione penale”, la residua attività (acquisizione dei dati anagrafici del debitore; quantificazione del credito e iscrizione a ruolo del credito) doveva essere totalmente affidata ad Equitalia Giustizia s.p.a.

Costituita nell’anno 2008 per accentrare le competenze di numerosi concessionari, diversi per area geografica, Equitalia Giustizia s.p.a. stipulava nel settembre 2010, la convenzione prevista dalla legge finanziaria con il Ministero acquisendo, per le pene irrogate con provvedimenti irrevocabili dopo il 1 gennaio 2008,  parte delle attività in precedenza svolte dagli uffici recupero crediti degli uffici giudiziari. Quanto alla attività di riscossione, dal 1° luglio 2017 l’attività di riscossione era esercitata da un ente pubblico economico denominato “Agenzia delle entrate – Riscossione” sottoposto all’indirizzo e vigilanza del Ministro dell’Economia e delle Finanze.

Alle  cancellerie dunque resta la sola attività di intimazione al pagamento, mentre l’intera procedura dalla iscrizione a ruolo era svolta da Equitalia giustizia e la riscossione dalla Agenzia delle Entrate. Questa parcellizzazione ha costituito  un problema per l’utente, in quanto il soggetto titolare dell’azione esecutiva resta l’ufficio riscossione, cui l’utente si deve rivolgere e non ha risolto  i problemi di inerzia e difetto di comunicazione all’origine della inefficienza della procedura di esecuzione e conversione. Oltre alle difficoltà legate al recupero coattivo del dovuto, la  mancata comunicazione degli esiti infruttuosi delle procedure esecutive alle cancellerie da parte del concessionario e le numerose proroghe concesse per la comunicazione sono ritenuti una delle principali cause della misura limitata  della conversione delle sanzioni pecuniarie.[17]

Proprio per imporre una scansione temporale, la legge 27 dicembre 2017, n. 205  ha integrato  la disciplina del TU spese di giustizia mediante l’inserimento nel testo del d.P.R. 115/2002 dell’art. 238 bis[18], ai sensi del quale,  lUfficio recupero crediti  investe il pubblico ministero perché avvii il procedimento di conversione  in due casi:

a) entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione da parte dell’Agente della riscossione relativa all’infruttuoso esperimento del primo pignoramento su tutti i beni;

b) ovvero se decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte del predetto Agente della riscossione ed in mancanza della ricordata comunicazione, non risulti esperita alcuna attività esecutiva ovvero se gli esiti di quella esperita siano indicativi dell’impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa (commi 2 e 3).

Il Ministero della Giustizia (DOG), con una serie di circolari nel 2017 (prot. 147874  4.8.2017) e poi del 2018 (9958U del 16 gennaio 2018 e 122979 U del 31 maggio 2018) ha dato una serie di direttive volte al progressivo smaltimento, da parte degli uffici recupero crediti, dei crediti non riscossi per condannati insolvibili, ora resi possibili dal termine biennale dal momento della presa in carico a ruolo, e delle modalità di individuazione sulle banche dati di tale momento. 

In sostanza, con cadenza biennale, l’ufficio recupero crediti doveva comunicare al p.m. i crediti non riscossi, indipendentemente da ogni verifica sulla insolvibilità o sulla insolvenza. Questa procedura, finalizzata ad anticipare il controllo sulla solvibilità del condannato ancorava anche all’inerzia amministrativa (presupposto indipendente dalla condotta del condannato) l’interessamento del magistrato di sorveglianza. Proprio l’equivalenza tra l’inerzia dell’agente della riscossione e la insolvenza ha condotto i  giudici remittenti a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, ritenuta iniqua e lesiva dei principi di eguaglianza e diritto di difesa. Con la  sentenza  20 dicembre 2019 n. 279 la Corte costituzionale, dichiarando infondata la questione (argomentando come il condannato abbia comunque avuto comunicazione di provvedere al proprio obbligo a mezzo dell’avviso di pagamento notificato nelle forme dell’art. 140 c.p.c.), lanciava un severo monito al legislatore perché modificasse il sistema di cui si è detto in premessa.

4. Funzione del pubblico ministero nel procedimento di esecuzione   

Come già rilevato, in seguito alla attribuzione al magistrato di sorveglianza della competenza di disporre la conversione, il p.m. sostanzialmente una funzione di “cerniera” tra i vari soggetti istituzionali preposti alla procedura, rivolgendosi nei diversi casi al giudice dell’esecuzione (sulle questioni sul titolo) e al magistrato di sorveglianza per gli accertamenti sulla solvibilità e la conversione, ruolo del tutto  ancillare[19], che si attiva al momento della iniziativa per la conversione. Allora, analogamente a quanto accade per l’esecuzione delle pene detentive, il p.m. prima di procedere alla richiesta di conversione  deve verificare se la pena pecuniaria si sia estinta (per indulto, depenalizzazione, prescrizione) oppure modificata per via di ipotetiche altre statuizioni del giudice dell’esecuzione (ad es. applicazione della continuazione in fase esecutiva), ovvero se la norma incriminatrice  sia stata oggetto di depenalizzazione ovvero di censura di incostituzionalità.

Per il resto,  dottrina e la giurisprudenza hanno ritagliato al p.m. un puro ruolo  di controllore “formale” della attività di riscossone e dei suoi esiti.  Anche  antecedentemente all’entrata in vigore del d.P.R. 115/2002 in giurisprudenza era  stato affermato che «nel procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, il compito del pubblico ministero, nelle ipotesi in cui la procedura di recupero – cui è preposta istituzionalmente la cancelleria del giudice dell’esecuzione – abbia avuto esito negativo, consiste soltanto nel controllo formale dell’attività svolta dalla cancelleria medesima. Pertanto, una volta ricevuti gli atti della procedura risoltasi negativamente, egli deve limitarsi ad accertare se le ragioni di tale esito diano luogo a un’effettiva impossibilità di esazione della pena pecuniaria ovvero se risultino in qualche modo superabili, rivolgendosi, nella prima ipotesi al magistrato di sorveglianza – cui è demandato l’accertamento del passaggio dalla situazione di mera e contingente impossibilità di esazione a una condizione di insolvenza effettiva e concreta – perché provveda alla conversione della pena pecuniaria, e, nella seconda ipotesi, restituendo gli atti alla cancelleria del giudice dell’esecuzione, perché riprenda la procedura di riscossione» (così Cass. pen., Sez. Unite 35/1995 RV 203294-1, Cass. sez I, 19 maggio  1997, n. 3460, RV 207974).

In seguito alla introduzione dell’art. 238 bis dpr 115/2002 qualche interprete[20] ha ritenuto di potervi rinvenire una fonte per dare concretezza ai poteri di controllo “formale” del p.m.  volti anche alla verifica della correttezza della procedura di esazione e dunque in parte di “recupero” delle valutazioni sulla insolvibilità.

Un tentativo di dettagliare l’attività “formale” di controllo del p.m. è contenuto anche nella circolare emessa in data 26 settembre 2018 dalla procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Reggio Calabria, in cui si indica tra i compiti del pubblico ministero competente la valutazione della  fondatezza della  impossibilità di escutere il condannato creditore verificando “l’esistenza attuale del credito e il decorso dei 24 mesi nelle ipotesi di cui al comma 3 della disposizione in esame, controllando la rispondenza formale tra l’importo iscritto a ruolo dall’Agente della riscossione e l’entità della sanzione pecuniaria inevasa”.

Un ruolo significativo del p.m., stavolta nella fase di cognizione, è la richiesta di sequestro conservativo (art. 316 ss. c.p.p.). Già previsto come garanzia patrimoniale di esecuzione nel precedente codice di rito, il sequestro conservativo è divenuto nel codice del 1989 una misura cautelare reale, ancorata ai presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora,  la cui finalità è quella di impedire che l’imputato ed il responsabile civile (ove presente) possano disporre materialmente e/o giuridicamente dei propri beni, compromettendo  le ragioni creditorie del danneggiato e dello Stato, anche nella esecuzione della pena pecuniaria. Dopo il passaggio in giudicato della sentenza si converte in pignoramento, allineandosi alla disciplina civilistica cautelare di cui all’art. 671 c.p.c. Nella prassi, tuttavia, è raramente usato per garantire l’esecuzione della pena pecuniaria. 

5. Il procedimento disegnato dalla riforma Cartabia

La nuova formulazione dell’art. 660 c.p.p. e delle relative disposizioni di attuazione (art. 181 bis disp. att. c.p.p.) ridisegna in modo sostanziale la procedura esecutiva delle pene pecuniarie, semplificandola e riducendone il numero dei passaggi e degli attori. Analogamente a quanto accade per l’esecuzione della pena detentiva, a gestire la procedura sono il magistrato di sorveglianza e il giudice dell’esecuzione, mantenendo al centro, quale autorità di collegamento e di iniziativa, il pubblico ministero. 

Separato dalla riscossione delle spese di giustizia, per le quali resta la disciplina previgente, il sistema recupera una più coerente dimensione endopenalistica[21]. L’esito  possibile, infatti,  in caso di mancato pagamento, non è più il passaggio ad una fase analoga alla esecuzione dei crediti di diritto pubblico, cioè  iscrizione a ruolo, cartella di pagamento/precetto, eventuale pignoramento e –  solo in caso di impossibilità –   conversione in misura limitativa della libertà, bensì direttamente la conversione in semilibertà sostitutiva (art. 660 comma 2 c.p../ art. 102 l. n. 689/1981) o, in caso di accertata mancanza di mezzi, nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o nella detenzione domiciliare sostitutiva (cfr. art. 103 l. n. 689/1981).

Il concessionario – ai cui annosi ritardi, anche nella comunicazione delle impossibilità di esazione, viene imputata la maggiore responsabilità delle inefficienze del sistema precedente[22]  –  viene sollevato da ogni compito e l’agente di riscossione ridotto ad una mera funzione di incasso e registrazione del pagamento  da comunicare alla procura.

La dicotomia insolvenza/insolvibilità viene riproposta in chiave non di possibile o impossibile o ritardato guadagno per l’erario, ma  piuttosto di responsabilità personale, in cui la  posizione del soggetto solvente (ma di fatto inadempiente) è ritenuta più grave di quella del soggetto che per le sue condizioni economiche non è in grado di pagare. La conversione diviene sostanzialmente uno strumento di pressione e non una conseguenza del mancato pagamento. Per chi, sulla base di accertamenti, viene ritenuto in grado di pagare, la pena è infatti convertita in  semilibertà, misura alternativa  in cui  il soggetto resta in stato di detenzione e il suo reinserimento nell’ambiente libero è parziale[23]. Si tratta di una misura molto più afflittiva della libertà controllata di cui alla disciplina previgente, ed anche del lavoro di pubblica utilità o della detenzione domiciliare sostitutiva previste invece dalla novella per l’insolvibile.

La separazione dal procedimento civile di escussione del creditore fa venir meno anche la funzione di garanzia della esazione della pena pecuniaria svolta dal sequestro conservativo. Nei novellati artt. 316 e 320 c.p.p., infatti, è scomparso il riferimento alla pena pecuniaria. La Relazione illustrativa, nel commentare la modifica, rileva come lo strumento del sequestro conservativo in passato non abbia comunque contribuito ad incrementare la riscossione (p. 303). 

In molti paesi, anche europei[24],  la conversione della pena pecuniaria è prevista non solo per l’insolvibile, ma anche e soprattutto per l’insolvente. L’insolvente mette infatti in atto un mancato pagamento colpevole, in quanto, pur avendone la possibilità, decide di non adempiere: minacciare la pena da conversione induce a pagare la pena pecuniaria. Significativamente la Relazione illustrativa cita il commento all’art. 40 del codice penale tedesco secondo cui la pena pecuniaria senza la minaccia della conversione sarebbe “una tigre senza denti”. Anche il sistema britannico (sect. 39  Power Criminal Courts Act 2000) prevede la conversione in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria, così come il sistema spagnolo (art. 53 codigo penal).

Naturalmente il pagamento interrompe in ogni momento l’esecuzione della pena da conversione già iniziata.

La presenza, in molti ordinamenti dell’Unione della possibilità della  conversione della pena pecuniaria non pagata in pena detentiva si riflette   nella Decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie e attuata in Italia con il d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 37 nella quale  è prevista, in caso di impossibilità di esazione, l’applicazione di una sanzione detentiva. Ai sensi dell’art. 10 di tale Decisione quadro (“Detenzione o altra sanzione alternativa in sostituzione del mancato recupero della sanzione pecuniaria”), “Qualora risulti totalmente o parzialmente impossibile dare esecuzione alla decisione, lo Stato di esecuzione può applicare sanzioni alternative, tra cui pene privative della libertà, ove la sua legislazione lo preveda in tali casi e lo Stato della decisione abbia consentito l’applicazione di tali sanzioni alternative…” (cfr. art. 13, co. 5 d.lgs. n. 37/2016).

D’altra parte, proprio nella Decisione quadro, l’aspetto punitivo della pena pecuniaria (rappresentato dalla diminuzione patrimoniale) è scorporato dall’aspetto remunerativo per la collettività, in quanto la somma versata resta  allo Stato di esecuzione (art. 13 comma 6 d. lgs. n. 37/2016). 

6. Il p.m. e il ruolo di avvio del procedimento. Problemi in tema di legittimazione attiva

La riforma ridimensiona significativamente la  funzione della cancelleria del giudice dell’esecuzione (o ufficio del “campione penale”) – già sollevata dalla convenzione del 2010 con Equitalia giustizia dello svolgimento di molti incombenti –   che resta responsabile solo del recupero spese di giustizia. Scompare infatti dalla procedura l’attività di iscrizione a ruolo delle pene pecuniarie, controllo e comunicazione con il concessionario o comunque con l’Agenzia incaricata della riscossione.

Il pubblico ministero invece rafforza il ruolo di “motore” della esecuzione della pena pecuniaria che in precedenza era limitato dalla necessaria interlocuzione e intervento dell’ufficio recupero crediti, e a ciò consegue un considerevole incremento degli sforzi organizzativi ed  operativi richiesti alle segreterie dedicate, nonché una nuova attività di interlocuzione con  la Agenzia di riscossione.

Un primo tema da affrontare è l’individuazione dell’ufficio del p.m. competente per i singoli passaggi, a partire dalla emissione dell’ordine/ingiunzione.

La riforma nulla dispone sul punto, ma è da ritenere che il p.m. tenuto ad emettere l’ordine di esecuzione sia lo stesso competente per l’esecuzione della pena detentiva, cioè quello presso il giudice dell’esecuzione, da individuare secondo le regole dell’art.  665, commi 1 e 2 c.p.p., di primo o di secondo grado a seconda se vi sia stata modifica sostanziale della sentenza[25].

Il problema sorge al momento della richiesta di conversione: nel silenzio della normativa previgente (gli unici riferimenti sono l’art.  678 comma 3 c.p.p., individuazione della procura presso il “magistrato di sorveglianza” e l’art. 107 della l.689/81) la soluzione era frutto di attività interpretativa.

La Procura generale presso la Corte di cassazione affrontava la questione in due decreti, il n. 370 e  il n.473 del 2018 che risolvevano altrettanti conflitti negativi di competenza tra pubblici ministeri  per la richiesta di conversione della pena pecuniaria per insolvibilità, ritenendo competente la procura   presso l’ufficio di sorveglianza. Il 3 giugno 2019,  il Procuratore generale della Cassazione emanava una nota in tema di  “orientamenti e buone prassi in materia di pena pecuniaria inesigibile” in cui, sulla scorta del processo motivazionale dei due decreti e ragionando in analogia con la procedura prevista nell’art. 658 c.p.p. in tema di misure di sicurezza, individuava nel p.m.   presso l’ufficio di sorveglianza quello legittimato a trasmettere la richiesta di conversione, cui il p.m.   presso il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto trasmettere gli atti   una volta informato dal relativo ufficio recupero crediti della impossibilità di esazione[26]. Rileva la nota che l’attribuzione dell’iniziativa della conversione al p.m.   “presso il giudice dell’esecuzione” avrebbe avuto l’effetto paradossale di ritenere competente ad inoltrare una richiesta all’ufficio di sorveglianza una procura diversa da quella competente per l’impugnazione dei provvedimenti del medesimo ufficio, da individuare “in via esclusiva” in quello sedente presso l’ufficio di sorveglianza (cfr., da ultimo, Cass. 1 Sez., sent.  n. 18886 del 28/02/2019 Rv. 275472)[27].

Certamente la rapidità della procedura può rallentarsi a causa della “variabilità” della competenza: il p.m.   del giudice della sentenza esecutiva (che peraltro può mutare nel caso di “cumulo”) al momento della richiesta di conversione è tenuto ad inviare il fascicolo al p.m.  “presso il magistrato di sorveglianza”, e quindi del luogo di residenza, di detenzione ecc. del condannato, luogo che a sua volta può rapidamente cambiare nel tempo[28]

Nel silenzio del legislatore e salvo future diverse valutazioni della giurisprudenza, è da ritenere che nulla sia cambiato e che dunque in caso di necessità di conversione, il p.m. “del giudice dell’esecuzione”, che emette il relativo ordine/ingiunzione di pagamento della pena pecuniaria, in caso di mancato pagamento nei termini, trasmetterà il fascicolo al p.m.  “del magistrato di sorveglianza” per la relativa richiesta. Poiché competente per la conversione è solo il magistrato di sorveglianza, l’ufficio di procura sarà sempre quello di primo grado in quanto la il procuratore generale presso la Corte di appello non interloquisce con il magistrato di sorveglianza ma solo con il collegio (art. 678, 3 comma c.p.p.).

Le complicazioni si moltiplicano nel caso, considerato dall’undicesimo comma del novellato art. 660 c.p.p., della condanna del civilmente obbligato alla pena pecuniaria[29]. Il p.m.  “della esecuzione” ordina il pagamento al condannato, poi in caso di mancato pagamento, trasmette gli atti al p.m.   “presso il magistrato di sorveglianza” per la richiesta di conversione. Poi se la sorveglianza rileva l’insolvibilità del condannato, prima di convertire rimanda al p.m., da ritenersi quello del giudice della esecuzione, perché ordini al civilmente obbligato il pagamento. In caso di insolvenza del civilmente obbligato, di nuovo viene ripetuto il primo passaggio per ottenere questa volta la conversione.

Se di regola, nei grandi distretti, i due uffici del p.m. della esecuzione e del p.m. della sorveglianza coincidono, per i medio piccoli questa parcellizzazione delle competenze può essere foriera di difficoltà. 

7. La procedura: Gli adempimenti preliminari alla emissione dell’ordine di esecuzione/ingiunzione

Al primo comma dell’art. 660 c.p.p. si legge: “quando deve essere eseguita una condanna a pena pecuniaria, anche in sostituzione di pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione con il quale ingiunge al condannato il pagamento”.

Sul piano pratico, la prima attività da svolgere è di tipo amministrativo e riguarda la formazione del fascicolo ai sensi degli artt. 27, 28 e 29 del regolamento attuativo del codice di procedura penale. La normativa secondaria (art. 28) dispone che ogni sentenza, comprese quindi anche quelle di condanna a pena esclusivamente pecuniaria, quelle del giudice di pace e  quelle a pena sostitutiva, siano comunicate dalla cancelleria del giudice “senza ritardo”, e comunque entro cinque giorni, al pubblico ministero presso il giudice che lo ha deliberato, perché ne curi l’esecuzione.

L’estratto esecutivo  deve indicare «le generalità del condannato, l’imputazione, il dispositivo, la precisazione che non è stata proposta impugnazione» ovvero copia dei provvedimenti che hanno definito gli eventuali altri gradi del procedimento. Anche prima della riforma era previsto lo svolgimento di tale incombente, tuttavia, intervenendo concretamente il p.m.   solo nella fase della conversione, gli estratti venivano inviati esclusivamente all’ufficio recupero crediti/campione penale,  nella sostanza una diversa sezione della cancelleria.

L’art. 29 del regolamento di esecuzione indica poi gli adempimenti che deve compiere la segreteria del pubblico ministero una volta ricevuto l’estratto esecutivo. Deve iscrivere la condanna a pena detentiva nel registro delle esecuzioni[30] e formare  un fascicolo (cartaceo) con un numero progressivo corrispondente a quello di iscrizione nel registro, in cui viene inserito l’estratto esecutivo, i certificati del casellario giudiziale, nonché, se esistente,  il documento riassuntivo di tutti gli atti esecutivi precedenti, anche provvisori o svolti in altro ufficio, detto “stato di esecuzione” [31]. Attualmente il registro (chiamato SIEP)  è diviso in sezioni, una in cui vengono iscritte le esecuzioni a pena detentiva, uno per le pene pecuniarie, uno per le pene sospese, uno per le pene da convertire.

Poiché la procedura per l’esecuzione della pene pecuniaria e quella per l’esecuzione della pena detentiva potrebbero nel concreto divergere (ad esempio per una condanna per reati contro il patrimonio o stupefacenti in cui la pena detentiva sia scontata in custodia cautelare prima del passaggio in giudicato della sentenza, ma resti da eseguire la sola pena pecuniaria, ovvero per pagamenti rateali parziali) verrà creato un fascicolo doppio, con doppia o diversa  numerazione. Questa esigenza peraltro nasce anche dal problema dello “spostamento” di competenza del p.m.  in caso di richiesta di conversione di cui si è detto.

L’estratto esecutivo a condanna a pena condizionalmente sospesa – che vale per la pena pecuniaria applicata come pena principale ma non  (ai sensi della novella dell’art. 61 bis della l. 689/81)  se la pena pecuniaria è applicata come sanzione sostitutiva di pena detentiva fino ad un anno –  non viene iscritto nel registro, ma viene archiviato, di solito in ordine cronologico, in attesa di una eventuale revoca del beneficio e comunque iscritto nel registro in apposito modello, in attesa di estinzione del reato (art. 167 c.p.) ovvero di revoca del beneficio nei casi previsti dalla legge.

Una volta creato il fascicolo per l’esecuzione della pena pecuniaria, e prima di emettere l’ordine, analogamente a quanto accade per l’esecuzione della pena detentiva,  il titolo esecutivo viene sottoposto al p.m., cui è proprio «l’obbligo di svolgere ogni accertamento opportuno per vagliare l’effettiva eseguibilità dell’atto Giudiziale»[32].  

Oggetto dell’analisi del p.m.  è in primo luogo la reale e persistente eseguibilità del titolo: viene verificata dal magistrato la possibile applicazione dell’indulto, dell’amnistia, dell’incidenza di modifiche normative favorevoli o della abolitio criminis, o anche, come di recente è avvenuto, eventuali interventi caducatori della Corte costituzionale o di Corti internazionali. A quest’ultimo riguardo, ad esempio, è stato ritenuto possibile far ricorso all’art. 673 c.p.p. (revoca della sentenza per abolitio criminis) anche nel caso di inapplicabilità sopravvenuta della norma nazionale per effetto di pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha affermato l’incompatibilità della norma di diritto interno con quella comunitaria[33].

Nell’attuazione del comando giudiziale, al pubblico ministero è preclusa ogni interpretazione del giudicato (anche ritenuto erroneo) che non sia strettamente letterale. La  giurisprudenza ha più volte affermato che il p.m. non possa chiedere al giudice una preventiva “verifica della esecutività” del giudicato ma debba procedervi autonomamente: in questo senso,  espressamente, tra le altre[34], vedi Cass., Sez. I, 31 ottobre 2001,  n. 3791 (RV 218044), in cui si ritiene «inammissibile la richiesta, rivolta dal P.M. al giudice dell’esecuzione, di preventiva valutazione dell’esecutività della sentenza e della conseguente legittimità dell’ordine di esecuzione», in considerazione della titolarità in capo all’organo dell’esecuzione  del potere-dovere di emettere il relativo ordine, valutandone in proprio la legalità, rinviando al momento del conflitto l’intervento del giudice.

Nella prassi, tuttavia, il ricorso all’incidente di esecuzione in via “preventiva” ed interpretativa concerne non tanto la esecutività quanto la “interpretazione” esatta del dispositivo su elementi di fatto, o anche solo correzione di errori materiali. La necessità di ricorrere al giudice, ad esempio, può avvenire per indicazioni contraddittorie tra dispositivo e motivazione. In materia di pene pecuniarie, particolarmente suscettibile di confusione, nella pratica, può essere la rateizzazione e certamente nei primi tempi la procedura per l’applicazione di pene sostitutive. Il sistema delle quote previsto per le pene sostitutive, nella sua fase iniziale di applicazione, potrebbe infatti portare a mancanza di chiarezza.

Altro tema all’attenzione del p.m. nella fase preventiva alla emissione dell’ordine è quello della  c.d. possibile “illegalità della pena”, venuto in rilievo in seguito alle sentenze della Corte Costituzionale in materia di pene edittali per i delitti in materia di stupefacenti, oggetto di possibile rideterminazione fino all’esaurimento del “rapporto esecutivo”[35]. In questo contesto, persistendo  l’interesse del condannato  alla rideterminazione della pena pecuniaria anche in caso di espiazione delle pena detentiva, il tema può venire in rilievo anche per la sola pena pecuniaria, la cui mancata escussione mantiene in vita il c.d. “rapporto esecutivo”[36].

Il tema della “pena illegale” è stato di recente esplorato dalla giurisprudenza producendo contrasti anche in seno alla Corte di cassazione. In generale,   “illegale” è  la pena non  prevista dall’ordinamento giuridico ovvero, per specie e quantità, eccedente il limite legale. In tema di pena pecuniaria, è stata ritenuta “illegale” ad esempio la pena superiore al massimo edittale (Cass. Sez. V,  n. 46122 del 13.6.2014 RV 262108 ed anche, recentemente, la pena inferiore al minimo di legge (cfr. Cassazione penale sez. II, 17/11/2021, (ud. 17/11/2021, dep. 15/12/2021),  RV 46003).

Della pena illegale in quanto derivante da “macroscopico errore di calcolo” si sono occupate le Seioni Unite ,proprio in materia di poteri del giudice dell’esecuzione, prima nella sentenza Basile (27.11.2014, n. 6240 Rv 262327), inerente la misura delle pene accessorie  e poi nella sentenza Butera ( 26.5.2015 n. 47766 RV 265108),  inerente l’applicazione della pena della reclusione per reati di competenza del giudice di pace. Di recente, in  motivazione, nella sentenza Savini (Cass. S.U. 47182 depositata il 13.12.2022 RV 283818), si è precisato che illegale è la pena derivante da macroscopico errore di calcolo solo nel caso in cui ciò sia avvenuto “senza alcuna giustificazione”, non all’esito di una ricostruzione motivazionale. Questa ultima sentenza, che argomentava in merito ai poteri della Cassazione di conoscere questioni non dedotte nel giudizio di appello,  ha escluso che fosse illegale la pena irrogata  in sede di giudizio abbreviato con erronea applicazione della misura della diminuente per le contravvenzioni. 

Naturalmente questo ruolo di controllo di legalità del p.m.  esisteva anche nel regime previgente. Per le condanne a sola pena detentiva tuttavia l’intervento veniva sollecitato su iniziativa dell’Ufficio recupero crediti (per esempio nel 2006 in occasione dell’indulto) oppure si attivava al momento della richiesta di conversione o su istanza del condannato, quasi sempre inerenti la estinzione della pena per il decorso del tempo. 

8. Il contenuto dell’ordine di esecuzione/ingiunzione

Una volta verificata la persistente ed attuale eseguibilità della pena pecuniaria, il p.m. deve emettere l’ordine (ingiunzione di pagamento), vera novità della riforma Cartabia, in cui all’ordine di pagamento entro un termine segue l’avviso delle conseguenze del mancato adempimento[37]. L’ordine riporta i dati del condannato (“le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e quanto altro valga a identificarla”), in particolare il codice CUI, l’imputazione, il dispositivo del provvedimento, l’indicazione dell’ammontare della pena, nonché le modalità del pagamento.

La struttura di tale “ordine”, che per brevità chiameremo ordine/ingiunzione,  è ricalcata sulla figura dell’ordine esecuzione “con sospensione” dell’art. 656 comma 5 c.p.p., anche se si tratta di un istituto molto diverso.

Infatti, l’ordine di esecuzione che “dispone” la carcerazione è diretto alle forze dell’ordine e viene solo “comunicato” al condannato mediante notifica. Il decreto di cui al quinto comma dell’art. 656 c.p.p. è finalizzato a sospendere l’efficacia dell’ordine e ad informare il condannato del diritto di chiedere misure alternative. Invece quello della pena pecuniaria è un vero e proprio ordine diretto al condannato, avente ad oggetto un “facere”, correlato da un contenuto informativo afferente ai suoi diritti ed alle conseguenze del mancato pagamento. Presenta forse maggiori analogie con  un istituto di creazione giurisprudenziale quale l’ingiunzione alla demolizione degli immobili abusivi ordinata in sentenza, che il p.m.  notifica al condannato dandogli un termine e avvertendolo che in caso di inottemperanza si provvederà a demolire con imputazione delle spese[39].

Come l’ordine di esecuzione a pena detentiva, è da ritenere che anche quello alla pena pecuniaria dovrà essere redatto sulla base di moduli standard ministeriali. Nell’ordine/ingiunzione di pagamento, la novella (art. 181 disp. att. c.p.p.) impone peraltro al p.m. di indicare le modalità del pagamento stesso, che sono quelle indicate in sentenza, per intero o rateale, allegando un modulo precompilato. Nel caso di pagamento a rate mensili, al quarto comma dell’art. 660 c.p.p. si dispone che sia indicato “il numero delle rate e l’importo” che sono dati desumibili dalla sentenza, ma altresì “le scadenze” di ciascuna rata per il pagamento.

Come determinare queste scadenze? Una possibilità ragionevole è quella di indicare non una data ma un termine (a sessanta, novanta, centoventi giorni ecc.) a partire dalla notifica, perché a differenza della pena detentiva non può indicarsi una data specifica.  Dovrà essere approntata da parte del Ministero una modulistica adeguata, nonché un sistema informatico che consenta di riportare i dati tratti dalla sentenza in modo agevole nell’ingiunzione di pagamento., soprattutto in riferimento alla scadenza delle diverse rate.

Va da sé che l’inottemperanza non espone il condannato alla violazione dell’art. 650 c.p., proprio perché tale norma, sussidiaria, si applica solo alle violazioni cui non segue un aggravamento o una specifica sanzione (Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 25322 del 15/02/2019  Rv. 276005).

La maggiore incisività derivante dal rischio automatico di conversione della pena pecuniaria rispetto al rischio di riscossione coattiva ha reso necessario anche modificare la tutela rafforzata contro l’inadempimento rappresentata dall’art. 388 ter c.p., ora limitata agli atti “fraudolenti”, e in cui, significativamente, è stato eliminato il riferimento al “precetto”, istituto non più coerente con il sistema esecutivo delle pene pecuniarie. 

L’art. 181 bis delle disposizioni attuative, nella nuova formulazione, dispone che “Le modalità di pagamento delle pene pecuniarie applicate dal giudice con la sentenza o con il decreto di condanna sono indicate dal pubblico ministero, anche in via alternativa, nell’ordine di esecuzione di cui all’articolo 660 del codice. Esse comprendono, in ogni caso, il pagamento attraverso un modello precompilato, allegato all’ordine di esecuzione.”. Dalla lettura che della norma fa la Relazione illustrativa si evince come essa contenga un preciso obbligo per il p.m. di chiarire, nel senso indicato dall’art. 660 c.p.p. misura e termini di pagamento della pena pecuniaria, modalità concrete, con indicazione del codice tributo e di quanto disposto dalla normativa secondaria e dalle circolari ministeriali. Poiché la norma prevede anche l’allegazione alla ingiunzione di un modulo precompilato di pagamento, per poter consentire l’avvio della novella è necessario uno sforzo organizzativo da parte del Ministero per dotare le segreterie rapidamente di un sistema informatico  che inserisca automaticamente i dati dell’ordine nel modulo, pena la paralisi degli uffici. 

 

Vedi i lavori della commissione Nordio di riforma del Codice penale del 2004, che miravano ad escludere la pena pecuniaria per i delitti di competenza del giudice ordinario. La “storia” delle pene pecuniarie è ripercorsa in L. GOISIS, Le pene pecuniarie. storia, comparazione, prospettive, relazione tenuta alla SSM dal titolo «La funzione della pena: storia, teoria, prospettive», nei giorni 20-22 settembre 2017, poi pubblicata in Diritto penale contemporaneo, 2017. I dati impressionanti sui tassi di esazione e di conversione delle pene pecuniarie sono riportati nella Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo di attuazione della legge delega 134/2021, cui si rimanda.

Corte cost., sent. 20 dicembre 2019, n. 279, Pres. Carosi, Red. Viganò, in Sistema penale, 23 dicembre 2019, con nota di G.LEO. Scrive la Corte: “Già nella sentenza n. 108 del 1987, questa Corte aveva invocato un intervento del legislatore sulla disciplina processuale della conversione, ritenuta inficiata da «difetti che la rendono non pienamente adeguata ai principi costituzionali in materia, e che possono indirettamente frenare un più ampio ricorso alla pena pecuniaria, da molti auspicato». Un simile monito deve essere ora ribadito. Il procedimento di esecuzione della pena pecuniaria, del quale i provvedimenti di conversione costituiscono uno dei possibili esiti, è oggi ancor più farraginoso di quanto non lo fosse nel 1987, prevedendo l’intervento, in successione, dell’ufficio del giudice dell’esecuzione, dell’agente della riscossione, del pubblico ministero e del magistrato di sorveglianza. A tutti questi soggetti sono demandati plurimi adempimenti più o meno complessi, che tuttavia non riescono, allo stato, ad assicurare né adeguati tassi di riscossione delle pene pecuniarie, né l’effettività della conversione delle pene pecuniarie non pagate”.

Nella Relazione illustrativa al decreto legislativo si legge, sul punto, che “L’abbandono del sistema del recupero crediti, in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria per mera insolvenza, è realizzato, sul piano processuale, concependo la pena pecuniaria non come un credito che lo Stato deve recuperare, attivandosi e sforzandosi in tal senso, bensì come una pena che, al pari di quella detentiva, deve essere eseguita dall’autorità giudiziaria attraverso un ordine di esecuzione.“ (pag. 274).  Così la relazione della Commissione Lattanzi, a commento delle due sentenze della Corte costituzionale: “A parere della Commissione queste lapidarie parole della Corte costituzionale non possono restare inascoltate, nel contesto di un’articolata proposta di riforma del sistema sanzionatorio. Superare il luogo comune e la cultura del carcere, come unica o comunque irrinunciabile, risposta al reato, richiede anche di valorizzare la più tradizionale e risalente delle sue alternative: la pena pecuniaria. Ciò richiede in primo luogo, attraverso interventi normativi e di riorganizzazione amministrativa, di razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, rivedendo, secondo criteri di equità e di effettività, i meccanismi di conversione in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato. L’effettività della pena pecuniaria dipende in larga misura, come mostra l’esperienza di altri ordinamenti, dalla certezza e dalla serietà delle conseguenze della mancata esecuzione; prima ancora, dipende dalla certezza che lo Stato chiederà conto del pagamento della pena pecuniaria inflitta dal giudice. La circostanza che la “certezza della pena”, nel dibattito pubblico, venga invocata a proposito della pena detentiva, e non anche della pena pecuniaria, che è la più incerta delle sanzioni penali, testimonia come sia ancora radicata l’idea del carcere – e della privazione della libertà personale – come unica pena possibile”. In dottrina, tra gli altri, E. DOLCINI: Pene detentive, pene pecuniarie, pene limitative della libertà personale: uno sguardo sulla prassi, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.1, 2006, pag. 95;  U.  NANNUCCI L’esecuzione della pena pecuniaria ovverosia con quale impegno lo stato punisce se stesso, in Cass. pen., fasc.7-8, 1998, pag. 2238. Una ricostruzione del sistema è in L. GOISIS, Le pene pecuniarie. storia, comparazione, prospettive, in diritto penale contemporaneo, 22 novembre 2017. F. FIORENTIN, L’esecuzione delle pene pecuniarie, in F. FIORENTIN, G.G. Sandrelli, L’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali. Disciplina dell’esecuzione penale e penitenziaria, Cedam, Padova, 2007. Sulla riforma, A. GAUDIERI,
“le novità introdotte nel nuovo procedimento di esecuzione”
, in “La Riforma Cartabia, a cura di G. SPANGHER, Pacini giuridica.

Sul rapporto tra investimenti fatti e risultati in termini di recupero, vedi la Relazione  allegata alla delibera 3/2017 della Sezione Centrale di Controllo sulla Gestione Delle Amministrazioni Dello Stato il Recupero Delle Spese di Giustizia e i  Rapporti Convenzionali tra Il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia.

E. DOLCINI. “Dalla riforma Cartabia nuova linfa per le pene sostitutive”. In Sistema penale, 30 agosto 2022.  Il riferimento alla “credibilità” della pena pecuniaria è in Corte cost., sent. 20 dicembre 2019, n. 279, Pres. Carosi, Red. Viganò, in Sistema penale, 23 dicembre 2019, con nota di G.LEO.

Una interessante e rapida analisi del tema della iniquità della sanzione pecuniaria, in cui sono riportati anche i riferimenti alle sentenze costituzionali è nel contributo di L. GOISIS Le pene pecuniarie, cit., pp.1-9.

[7] L’art. 37  del r.d. 23 dicembre 1865, n. 1701 consentiva  all’Intendenza di Finanza – su parere dell’organo dell’esecuzione, procuratore della Repubblica o pretore – ovvero al Ministro – ove l’Intendente dissentisse da tale parere – di dilazionare o rateizzare (fino a sei anni) il pagamento della pena pecuniaria.

[8]L’insolvibilità del condannato e della persona civilmente obbligata per la multa o per l’ammenda agli effetti indicati negli artt. 136, 196 e 197 c.p. e nell’art. 586 c.p.p., si prova con certificati dell’Autorità comunale, del procuratore delle imposte e dell’ufficio di polizia tributaria del luogo ove il condannato o la persona civilmente obbligata per la multa o per l’ammenda ha il domicilio o la residenza, ovvero si deve ritenere che possieda beni o cespiti di reddito. Tali certificati devono essere richiesti e rilasciati di urgenza”. In ordine alle concrete modalità operative, occorreva ricollegarsi nella ricostruzione del sistema procedimentale alle norme contenute nel r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701 sulla tariffa penale, la quale indicava il percorso che si doveva seguire: gli artt. 221 e 222 disponevano che entro cinque giorni dalla scadenza del termine prefisso con l’atto di precetto la cancelleria del giudice competente richiedeva il pignoramento; entro venti giorni dal pignoramento presentava istanza di vendita dei beni pignorati; qualora poi l’esito fosse stato infruttuoso, per mancato reperimento di beni pignorabili o per l’insufficienza del ricavato dalla vendita, l’ufficiale giudiziario doveva (art. 224 della legge) richiedere al comune certificato di insolvibilità; ottenuto il certificato, doveva presentare al pretore i verbali (di mancato pignoramento o di vendita con ricavato insufficiente) insieme al certificato; il pretore dopo avere attestato che non risultava il possesso di immobili, provvedeva alla trasmissione degli atti all’autorità competente a disporre la conversione.

[9] Corte cost. sent. 108/87: Innanzitutto, che il provvedimento di conversione non sia meramente esecutivo della sentenza di condanna lo si arguisce agevolmente – come già rilevato – dal fatto che esso, alla stregua dello stesso tenore dell’art. 586, sesto comma, presuppone non solo la condanna ma anche l’accertamento del mancato pagamento della pena pecuniaria irrogata e, soprattutto, quello dell’insolvibilità del condannato. Dipendendo la legittimità del provvedimento dalla effettiva sussistenza di tali presupposti, non é concepibile che il compito dell’organo dell’esecuzione si risolva in un’acritica presa d’atto dell’operato di altri organi: e che quindi gli sia precluso, ad esempio, il sindacato sulla sufficienza degli elementi posti a base dell’attestazione dell’ufficiale giudiziario di notorietà dell’insolvibilità, ovvero sulla congruità delle indagini volte a verificare l’eventuale esistenza di altri luoghi, diversi dal domicilio e dalla residenza, ove “si deve ritenere” che il condannato possieda beni o cespiti di reddito. Basterebbe, del resto, por mente ai problemi che può comportare la stessa identificazione delle persone od enti civilmente obbligati per l’ammenda alla stregua del nuovo testo degli artt. 196 e 197 c.p. – la cui accertata insolvibilità é pure presupposto di legittimità della conversione – per rendersi conto che non può non spettare all’autorità giudiziaria il sindacato sull’eventuale erroneità dell’attività del cancelliere. E del resto, la legittimità del provvedimento comporta anche accertamenti di ordine diverso, quali ad es. quelli relativi all’eventuale estinzione del reato o della pena pecuniaria o all’eventuale computo della pena presofferta a titolo diverso.

Tutto ciò da un lato dà ragione del già rilevato carattere decisorio del provvedimento (cfr. par. 3), del resto confermato dal suo assoggettamento al rito degli incidenti di esecuzione (art. 586, ult. comma); dall’altro concorre a far ritenere – secondo quanto sostenuto dalla più recente dottrina – che ad esso debba assegnarsi natura giurisdizionale: conclusione, questa, che trova conferma non tanto nel fatto che dalle suesposte considerazioni discende che il provvedimento deve essere motivato (e che esso assume, quindi, la forma dell’ordinanza); quanto, soprattutto, nell’assorbente rilievo che trattasi di provvedimento dell’autorità giudiziaria limitativo della libertà personale.

[10] Corte cost., sentenza 149/71. La Corte costituzionale interviene poi nel 1979 (131/79) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 136 c.p. e 586 c.p.p., laddove prevedono la conversione della pena pecuniaria in detenzione, fonte di evidente ineguaglianza tra i condannati basata sul reddito.

[11] Le fasi sono così descritte da  Corte cost. Corte cost.  sent. 279/19.

Il  p.m.  perde  il potere di accertamento della insolvibilità e di disporre la conversione e agisce solo come “tramite”, trasmettendo gli atti.

[13] Così la massima di Sez. 1, Sentenza n. 26358 del 09/06/2005 Cc.  (dep. 15/07/2005 ) Rv. 232056: Presupposto della conversione delle pene pecuniarie è la verifica dell ‘effettiva insolvibilità del condannato, da intendersi come permanente impossibilità di adempiere, ed è distinta dalla situazione di insolvenza, che rappresenta invece uno stato transitorio, che consente il differimento o la rateizzazione della pena pecuniaria.

[14] Cfr, da ultimo, Sez. 1, Sentenza n. 25355 del 16/05/2014 Cc.   Rv. 262545: “Il provvedimento di rateizzazione della pena pecuniaria, attribuito alla competenza del magistrato di sorveglianza dall’art. 660, comma terzo, cod. proc. pen., è subordinato alla esistenza di “situazioni di insolvenza” e non presuppone affatto la richiesta di conversione della pena pecuniaria da parte del pubblico ministero, alla quale deve darsi luogo, ai sensi del precedente comma secondo dello stesso art. 660 cod. proc. pen., solo in presenza della diversa condizione costituita dall’accertata “impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa“. In precedenza, ai sensi dell’art. 238 t.u.  spese di giustizia, poi dichiarato incostituzionale,  in senso contrario si era pronunciata la giurisprudenza di merito che riteneva inammissibile la richiesta prima del procedimento di conversione (cfr. Tribunale Cassino 13.11.2002 in giur. Merito 2003, 2050).

[15]Entro un mese dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la cancelleria del giudice dell’esecuzione (Campione penale) deve notificare al condannato l’invito al pagamento. L’invito contiene l’intimazione di pagare entro il termine di 30 giorni e di depositare la ricevuta di versamento entro 10 giorni dall’avvenuto pagamento.

Per effettuare il pagamento occorre però aspettare la notifica da parte del Campione penale e deve essere fatto per intero, salvo rateizzazione (art. 212 T.U.).

Se il condannato non paga entro il termine previsto (sostanzialmente entro un mese e 10 giorni dalla notifica dell’invito), la cancelleria iscrive a ruolo la somma dovuta dal condannato provvedendo contestualmente alla consegna della relativa pratica al concessionario per la riscossione dei tributi. (art. 213/223 T.U.. L’art.)

A questo punto il concessionario ha un termine di 4 mesi per notificare la cartella di pagamento al debitore, contenente l’intimazione al pagamento entro 60 giorni, decorsi i quali il concessionario può procedere alla riscossione coattiva tramite esecuzione forzata da parte degli ufficiali esattoriali.

Se anche tale procedura esecutiva ha esisto negativo il concessionario provvede a darne comunicazione al Campione penale il quale, a sua volta, da impulso alla successiva fase della procedura di conversione della pena pecuniaria

[16] A. FAMIGLIETTI, Rateizzazione e conversione delle pene pecuniarie: evoluzioni ed involuzioni normative e giurisprudenziali Giur. merito, fasc.1, 2004, pag. 210, MARCHESELLI, L’esecuzione delle pene pecuniarie tra inerzie ed eccessi di delega del legislatore, in Giust. pen., 2003, II, 672.

[17] Sul punto, L. GOISIS, L’effettività (rectius, ineffettività) della pena pecuniaria in Italia, oggi, in Diritto penale contemporaneo, 13 novembre 2012, p. 7

[18] Art. 238-bis t.u. spese di giustizia (Attivazione delle procedure di conversione delle pene pecuniarie non pagate)

Entro la fine di ogni mese l’agente della riscossione trasmette all’ufficio, anche in via telematica, le informazioni relative allo svolgimento del servizio e all’andamento delle riscossioni delle pene pecuniarie effettuate nel mese precedente. L’agente della riscossione che viola la disposizione del presente comma è soggetto alla sanzione amministrativa di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, e si applicano le disposizioni di cui agli articoli 54, 55 e 56 del predetto decreto.

2. L’ufficio investe il pubblico ministero perché attivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente, entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione da parte dell’agente della riscossione, relativa all’infruttuoso esperimento del primo pignoramento su tutti i beni.
3. Ai medesimi fini di cui al comma 2, l’ufficio investe, altresì, il pubblico ministero se, decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione e in mancanza della comunicazione di cui al comma 2, non risulti esperita alcuna attività esecutiva ovvero se gli esiti di quella esperita siano indicativi dell’impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa.
4. Nei casi di cui ai commi 2 e 3, sono trasmessi al pubblico ministero tutti i dati acquisiti che siano rilevanti ai fini dell’accertamento dell’impossibilità di esazione.

5. L’articolo di ruolo relativo alle pene pecuniarie è sospeso dalla data in cui il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente.

6. Il magistrato di sorveglianza, al fine di accertare l’effettiva insolvibilità del debitore, può disporre le opportune indagini nel luogo del domicilio o della residenza, ovvero dove si abbia ragione di ritenere che lo stesso possieda altri beni o cespiti di reddito e richiede, se necessario, informazioni agli organi finanziari.
7. Quando il magistrato di sorveglianza competente accerta la solvibilità del debitore, l’agente della riscossione riavvia le attività di competenza sullo stesso articolo di ruolo.
8. Nei casi di conversione della pena pecuniaria o di rateizzazione della stessa o di differimento della conversione di cui all’articolo 660, comma 3, del codice di procedura penale, l’ufficio ne dà comunicazione all’agente della riscossione, anche ai fini del discarico per l’articolo di ruolo relativo.
9. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 trovano applicazione anche per le partite di credito per le quali si è già provveduto all’iscrizione a ruolo alla data di entrata in vigore delle medesime.

[19] F. FIORENTIN, La riforma della procedura di conversione delle pene pecuniarie nella nuova disciplina introdotta dal Testo Unico in materia di spese di giustizia, in www.diritto.it, Osservatorio sul diritto dell’esecuzione penale, Commenti, 17 settembre 2002. A. FAMIGLIETTI, Rateizzazione,  cit.,  pag. 196.

[20]E. QUARTA, “Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase. L’art. 238-bis t.u. spese di giustizia tra mondo omerico, spada di Damocle e logos eraclitèo, 2018 ha suggerito che l’art. 238 bis t.u. spese di giustizia,  portando  l’ufficio recupero crediti  a investire il pubblico ministero affinché attivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente anche in caso di mancata effettuazione di procedure di pignoramento potenzialmente fruttuose, potrebbe aver dotato il pubblico ministero, in caso accertasse l’inadeguatezza della procedura esecutiva, del potere di investire l’ufficio incaricato della riscossione per l’ulteriore corso della procedura esecutiva stessa, ossia procedere alla rimessione degli atti al concessionario (Agenzia delle Entrate-Riscossione) perché esperisca l’attività di riscossione coattiva necessaria,  anziché trasmettere subito gli atti al magistrato di sorveglianza per l’attivazione del procedimento di conversione.

[21] V. Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134 recante delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari. P. 181 ss.

[22] Evidenzia questa criticità  la Relazione  allegata alla delibera 3/2017 della Sezione Centrale di Controllo sulla Gestione Delle Amministrazioni Dello Stato il Recupero Delle Spese di Giustizia e i  Rapporti Convenzionali tra Il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia. L’analisi compiuta in dettaglio dalla Corte dei Conti fa emergere i seguenti nodi problematici: l’irrazionalità del controllo operato su Equitalia Giustizia, dapprima da Equitalia s.p.a, a sua volta controllata dall’Agenzia delle Entrate, e oggi demandato al Ministero dell’economia e delle finanze, a seguito del d.l. n. 193/2016; il fatto che  il modello adottato “si è risolto essenzialmente nella sostituzione di parte dell’attività precedentemente svolta dagli operatori degli uffici giudiziari con quella demandata agli operatori di Equitalia giustizia. É mancato un decisivo intervento nella direzione dell’effettiva reingegnerizzazione dell’intero processo gestionale, che a giudizio della Corte dovrebbe costituire lo strumento principale da utilizzare nell’innovazione dei processi operativi della pubblica amministrazione”; la reiterazione delle proroghe legislative della comunicazione d’inesigibilità che ha determinato la caducazione della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (art. 660 c.p.p) una volta decorso il termine di estinzione, sul presupposto che lo stesso non sia suscettibile di interruzione, evidenziando altresì l’urgenza “di un intervento normativo per rendere compatibili i tempi previsti per l’esame delle comunicazioni di inesigibilità con la citata disposizione penale”.

[23] Ai sensi dell’art. 48 ss. legge 354/1975, al condannato e all’internato è concesso  di trascorrere parte del giorno fuori dall’Istituto di pena per partecipare ad attività lavorative, istruttive e utili al reinserimento sociale, in base a un programma di trattamento, la responsabilità del quale è affidata al direttore dell’Istituto di pena.

[24] Dalla Relazione: In Germania la pena pecuniaria non eseguita si converte in pena detentiva quale che sia la ragione del mancato pagamento (§ 40 Codice penale tedesco). Si afferma comunemente che senza la prospettiva della conversione in una pena limitativa della libertà personale, in caso di mancato pagamento, multa e ammenda sono come “una tigre senza denti”. E si rileva tra gli studiosi che sarebbe opportuno considerare il caso dell’insolvibilità in ragione delle condizioni economiche. Analogo modello è previsto in Svizzera (art. 36 del codice penale), in Austria (§19 del codice penale) e in Belgio (art. 40 del codice penale). La possibilità di infliggere una pena detentiva, in caso di mancato pagamento delle pene pecuniarie, è prevista, secondo modelli di disciplina maggiormente articolati, anche in Francia (artt. 749 ss. del codice di procedura penale), in Spagna (art. 53 del codice penale) e in Portogallo (art. 49 del codice penale).

[25] Il procuratore generale presso la Corte di cassazione non detiene funzioni esecutive e, in caso di annullamento con rinvio, la competenza in executivis è assegnata alla corte d’appello — quale giudice di rinvio — ed alla procura generale presso la corte d’appello. In caso di modifica della sentenza in appello, è la natura “sostanziale” o meno dell’intervento del giudice di secondo grado a determinare la competenza in executivis anche del pubblico ministero. È considerato intervento “sostanziale” quello sulla qualificazione giuridica, sulla responsabilità, sul riconoscimento e comparazione delle circostanze, viceversa quello sulla misura della pena e sulla sospensione condizionale non è tale da determinare spostamento della competenza.

[26] Questo il testo della nota: “L’introduzione dell’art. 238 bis D.P.R. 2002, n. 115 in materia di disciplina del procedimento di conversione delle pene pecuniarie non pagate, nello stabilire che gli uffici competenti compulsino il pubblico ministero perché attivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente, nulla dice in ordine ai criteri di individuazione del pubblico ministero che, ai sensi dell’art. 660~ comma 2, c.p.p., è tenuto a promuovere tale procedura.

In assenza di indicazioni interpretative precise, in  prima battuta la questione è stata risolta dai pubblici ministeri, nella maggioranza dei casi, individuando la competenza del pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione.

Sulla questione sono poi intervenuti due decreti della Procura Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione (n. 370 e n. 473 del 2018) su altrettanti contrasti negativi tra pubblici ministeri, che hanno concluso invece nel senso che la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza non può essere fatta direttamente dal pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione, ma deve passare per il tramite di quello competente ad esercitare le funzioni presso lo stesso ai sensi dell’art. 678 c.p.p ..La soluzione interpretativa è stata elaborata attraverso una lettura analogica dell’art. 658 c.p.p., attinente all’individuazione del pubblico ministero competente ad attivare la procedura di applicazione di una misura di sicurezza ordinata con sentenza, rilevandosi peraltro che, alla luce del disposto dell’art. 667 comma 4 c.p.p., qualora si intenda che il pubblico ministero competente a promuovere la conversione della pena pecuniaria. inesigibile sia quello dell’esecuzione, ne deriverebbe una distonia di sistema per cui il pubblico· ministero che assume l ‘iniziativa propositi va sarebbe diverso da quello legittimato ad impugnarla. La regola che deve guidare il Pubblico Ministero nella promozione di istanze di conversione della pena pecuniaria inesigibile. La soluzione giuridica adottata dalla Procura Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione (n. 370 e n. 473 del 2018) su contrasti negativi tra pubblici ministeri appare condivisa da tutti i Procuratori Generali intervenuti i quali peraltro hanno evidenziato come la magistratura di sorveglianza nulla ha mai osservato sul punto. Conclusivamente può affermarsi che, ai fini propulsivi della procedura di sostituzione della pena pecuniaria inesigibile ai sensi degli artt. 238 bis D.P.R. n. 115/2002 – 660 comma 2 c.p.p., il pubblico ministero cui spetta la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza competente è quello individuato ai sensi dell’art. 678 comma 3 c.p.p. e non il pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione”.

[27] Cass., Sez. 1, sent.  n. 18886 del 28/02/2019 Rv. 275472: La legittimazione a proporre ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza spetta, in via esclusiva, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del luogo in cui ha sede l’ufficio di sorveglianza, ai sensi dell’art. 678, comma 3, cod. proc. pen. (Conf. Sez. 1, n. 1337/95, Rv. 201614-01; Sez. 1, n. 1320/95, Rv. 200594-01).

[28] La giurisprudenza ha sancito che in caso di detenzione il magistrato di sorveglianza competente è quello presso l’istituto di detenzione, non quello individuato ai sensi dell’art. 107 l.698/81 (cfr. Cass. Sez. 1 – , Sentenza n. 4392 del 08/01/2020 Cc.  (dep. 03/02/2020 ) Rv. 278160)

[29] Gli artt. degli artt. 196 e 197 cod. pen.  dispongono che, in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria da parte del civilmente obbligato, la conversione ha luogo nei confronti del condannato, secondo il modello della responsabilità penale.

[30] Il registro esecuzioni, come tutti i registri giudiziari, è informatico e prende l’acronimo di SIEP (sistema informativo dell’esecuzione penale) I dati vengono inseriti in maschere e il sistema provvede anche a redigere, sulla base dei dati inseriti, i provvedimenti- tipo da sottoporre al p.m., in modo da garantire uniformità per tutti gli uffici di procura. Il sistema possiede anche un programma che consente di calcolare, sulla base del calendario effettivo,  i giorni di residuo pena da scontare, consentendo di ridurre al minimo il rischio di errori.  Vedi Circolare Ministero Giustizia 14 gennaio 2006 – Tenuta informatizzata dei registri nei settori esecuzione penale e sorveglianza.

[31] Vedi Circolare Ministero Giustizia 14 gennaio 2006 – Tenuta informatizzata dei registri nei settori esecuzione penale e sorveglianza

[32] La dottrina ha precisato che la funzione del p.m..  quale organo dell’esecuzione, ha un ruolo di controllo della chiarezza e precisione della attività esecutiva: F. Fiorentin – G.G. Sandrelli, L’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali,  CEDAM, Padova, 2007,  p. 98.

[33] Secondo la Suprema Corte in questi casi infatti ci si trova di fronte ad un caso assimilabile a quello della declaratoria di illegittimità costituzionale. A queste conclusioni si è giunti sia nel caso di detenzione di CD privi del contrassegno SIAE, sia con riferimento al reato di inottemperanza all’ordine di espulsione, di cui all’art. 14 c.5 ter del D.L.vo 286/1998. Sul contrassegno SIAE, vedi Cass. pen.,, Sez. VII,  6 marzo 2008, n. 21579 non massimata; sull’inottemperanza all’ordine di espulsione, vedi per tutte Cass., Sez. I, 29 aprile 2011 n. 18586, RV. N. 250233: « L’efficacia diretta nell’ordinamento interno della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2008/115/CE (cosiddetta direttiva rimpatri) impone la disapplicazione dell’art. 14, comma 5-ter, D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, con il conseguente annullamento senza rinvio, per non essere il fatto più previsto dalla legge come reato, della sentenza di condanna. (V. Corte di Giustizia UE 28 aprile 2011, El Didri)».

[34] Più di recente Cass. Sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41325, RV., n. 245060: «È inammissibile l’istanza con la quale il P.M. chieda al giudice dell’ esecuzione di esprimere un parere preventivo sull’interpretazione del giudicato (nella specie circa l’avvenuta applicazione della recidiva) in vista dell’adempimento di doveri gravanti esclusivamente su di lui per l’ esecuzione della pena.»; Cass., Sez.I, 24 novembre 2010, n. 43500, RV., n.  248988, proprio in tema di indulto: «È inammissibile la richiesta del P.M. al giudice dell’esecuzione diretta non già all’applicazione dell’indulto ma a determinare se ed in quale misura debba avvenire detta applicazione previa interpretazione del giudicato, spettando tale compito allo stesso P.M. ».

[35] Le sentenze cui si fa riferimento sono Corte cost., 12 febbraio 2014, n. 32 e da ultimo,  Corte Cost., 8 marzo 2019, n. 40. In via generale, la giurisprudenza ha escluso in sede esecutiva possa essere messa in discussione la pena irrogata, tranne nel caso in cui «la sanzione irrogata non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata – salvo che non sia frutto di errore macroscopico – trattandosi di errore censurabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza». Diverso è tuttavia il caso in cui la pena sia stata “riconosciuta” illegale perché contemplata in norma dichiarata incostituzionale, con effetti retroattivi, situazione in cui le Sezioni Unite della Cassazione, a partire dalla nota sentenza “Gatto” hanno espressamente riconosciuto  al p.m. il dovere  di intervenire, attivandosi per chiedere al  giudice la “rideterminazione” della pena inflitta, in considerazione del divieto, immanente al sistema, di mantenere nell’ordinamento una norma “originariamente incostituzionale” con effetti sulla libertà personale. Unico limite alla rideterminazione, l’esaurimento del c.d. “rapporto esecutivo”.

[36] Sez. 5, Sentenza n. 370 del 19/10/2021 Cc.  (dep. 10/01/2022 ) Rv. 282420 – 01: In tema di stupefacenti, sussiste l’interesse del condannato ad ottenere la rideterminazione “in executivis” della pena divenuta illegale a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019 qualora, pur interamente espiata la pena detentiva, non sia stata ancora eseguita quella pecuniaria contestualmente irrogata, atteso che, agli effetti dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il rapporto esecutivo si esaurisce soltanto con l’estinzione di entrambe tali pene.

[37] Sul nuovo art. 660 c.p.p. e in generale sul procedimento, vedi la Relazione dell’Ufficio del Massimario della Cassazione, 5 gennaio 2023, p. 215 ss.

Il numero CUI è il Codice univoco individuo, introdotto dalla legge 30 giugno 2009 n. 85. Il codice è generato automaticamente dal sistema AFIS (automatic fingeprints identification system) per l’identificazione della persona attraverso le impronte digitali sul casellario centrale delle identità presso il Ministero degli interni.

[39] Una volta ricevuto l’estratto esecutivo della sentenza con ordine di demolizione, il pubblico ministero deve svolgere taluni accertamenti preventivi onde verificare la persistenza dei presupposti per l’esecuzione della demolizione: accertare, informandosi presso il Comune, se eventualmente l’opera sia stata demolita; se, al contrario, siano intervenuti provvedimenti dell’Amministrazione (ad esempio acquisizione al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 1 comma 3 d.lgs. n. 380 del 2001, ovvero emissione di delibera del Consiglio Comunale di prevalente interesse pubblico alla conservazione dell’opera); se risulti avanzata istanza di condono edilizio da parte dell’interessato o siano intervenuti provvedimenti amministrativi di condono. In caso negativo, il pubblico ministero da avvio alla procedura esecutiva, notificando al condannato o comunque all’obbligato l’ingiunzione a demolire le opere dichiarate abusive ed a ripristinare lo stato dei luoghi, con allegata copia del dispositivo della sentenza di condanna. Il contenuto dell’ingiunzione, provvedimento non previsto dalla legge ma di origine pretoria, è quello tipico dell’ordine di esecuzione, vale a dire il riferimento alla sentenza che deve essere eseguita, il titolo e l’epoca del commesso reato, nonché l’oggetto dell’esecuzione con l’indicazione delle opere che in concreto devono essere rimosse e distrutte. La prevalente giurisprudenza ritiene che la notifica dell’ingiunzione a demolire al condannato, finalizzata ad evitare al condannato aggravi di spesa consentendogli di aderire spontaneamente, sia presupposto essenziale della demolizione; l’eventuale omissione ne determina la nullità (cfr. Cass., Sez. III, 9 marzo 2011, n. 13345, in C.E.D. Cass., n. 249922; Cass., Sez. III, 2 ottobre 2011, n. 46209, ivi, n. 251593; Cass., Sez. III, 6 luglio 2011, n. 3589, ivi, n. 251871. ). Al fine di fornire all’interessato la possibilità di ottemperare all’ordine impartito nelle modalità per lui economicamente più vantaggiose, il provvedimento solitamente contiene l’indicazione di un termine entro il quale l’interessato deve effettuare la demolizione.  

Decorso inutilmente il termine per la spontanea esecuzione e in mancanza di elementi ostativi, il pubblico ministero dà inizio al procedimento, emettendo ordine di esecuzione coattiva alla demolizione, contenente le prescrizioni attuative necessarie. Dell’effettivo inizio delle operazioni demolitorie viene dato congruo preavviso all’esecutato (e ad altri eventuali interessati), con l’avvertimento che saranno a lui addebitate, con apposito provvedimento, le spese relative.

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