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La vicenda dibattuta

Un cliente conviene in giudizio innanzi al Tribunale di Milano la propria banca al fine di ottenerne la condanna alla ripetizione di somme indebitamente pagate. Segnatamente il cliente contesta le condizioni economiche applicate ad un contratto di leasing e al collegato contratto in derivati, poi contabilizzate sul proprio conto corrente. Ancora più in dettaglio, l’attore lamenta:

– l’indebita determinazione degli interessi e delle spese del contratto di leasing, posto che il capitale realmente finanziato era inferiore a quello nominale;

– la nullità del contratto in derivati per indeterminatezza dell’oggetto, non risultando specificate le modalità di calcolo del Mark to Market;

– il superamento del tasso soglia in materia di usura sul conto corrente, nonché l’addebito illegittimo di interessi anatocistici e commissioni di massimo scoperto.

La banca si costituisce in giudizio chiedendo il rigetto di tutte le domande. All’esito di consulenza tecnica d’ufficio contabile, il Tribunale accoglie parzialmente le domande del cliente rideterminando il saldo del conto corrente.

La decisione: il contratto di leasing non è un mutuo.

Il giudice, in primo luogo, chiarisce che il contratto di locazione finanziaria ha causa differente da quella del mutuo; con il leasing, infatti, il concedente acquista la proprietà del bene richiesto dall’utilizzatore, il quale corrisponde un canone periodico che, sommato al prezzo di opzione di acquisto, consente di raggiungere una equivalenza fra il prezzo di acquisto pagato e l’importo finale conseguito dall’utilizzatore, ovviamente maggiorato dall’utile riservato alla società di leasing; con il contratto di mutuo, invece, il finanziatore si limita a erogare una somma di denaro, destinata a essere restituita a scadenze programmate, con maggiorazione di interessi.

Nel contratto di leasing l’utilizzatore non si obbliga quindi a una prestazione propriamente restitutoria (come nel mutuo), ma è tenuto alla corresponsione di un canone periodico, la cui quantificazione viene concordata in ragione del prezzo inizialmente sostenuto dal concedente per acquistare sul mercato il bene, maggiorato del suo utile.

Nel leasing non vi è pertanto un piano di ammortamento in quanto non si ha alcun capitale da restituire; al contrario, si ha soltanto un numero di canoni da corrispondere e il prezzo di opzione.

Muovendo da tale prospettiva, il Tribunale ritiene che non sia fondata la contestazione del cliente in punto di nullità del leasing per mancata esplicitazione del Tasso Annuo Effettivo (TAE) ossia di un tasso di interesse determinato tenendo conto degli effetti della capitalizzazione. Il giudice ricorda al riguardo che l’art. 6 della delibera CICR del 9 febbraio 2000 si riferisce solo ai contratti stipulati nell’esercizio dell’attività bancaria, sicché lo stesso non trova applicazione con riferimento ai contratti di locazione finanziaria, in relazione ai quali nessuna disposizione impone l’indicazione del TAE.

Solo nei contratti strettamente bancari si determina infatti il pagamento degli interessi con finalità di corrispettivo della messa a disposizione di un capitale; conseguentemente, qualora tali pagamenti siano concordati con cadenza infrannuale, la quantificazione degli interessi deve tenere conto anche di quelli in precedenza pagati con gli altri versamenti effettuati nell’anno; in tali casi, dovendosi rapportare il tasso di interessi su base annua, si spiega perché il TAE, comprensivo degli effetti della capitalizzazione infrannuale, risulti maggiore rispetto al Tasso Annuo Nominale (TAN).

La pattuita periodicità di liquidazione infrannuale comporta quindi una leggera maggiore onerosità per il debitore, il quale deve corrispondere gli interessi già nel corso dell’anno, anziché ritardare tale esborso alla fine del periodo annuale; ciò senza che si determini una produzione di interessi su interessi (c.d. anatocismo).

In conclusione, ad avviso del Tribunale milanese, nel contratto di leasing non si configura in senso giuridico un credito di interessi in capo al concedente e il tasso leasing opera solo come tasso interno di attualizzazione, ossia, secondo la definizione della Banca d’Italia, come tasso rivolto a rendere eguale il costo del bene agli esborsi a titolo di canone e di corrispettivo per l’esercizio dell’opzione di acquisto da parte dell’utilizzatore; l’eventuale maggiore onere per l’utilizzatore, discendente dalla previsione di una periodicità infrannuale del canone, non si risolve allora in un incremento del corrispettivo per il concedente, ma rimane relegato a un mero costo contabile per il debitore adempiente;costo, questo, che incide esclusivamente sul piano propriamente contabile, ma non sul sinallagma contrattuale.

Ne consegue che nei contratti di leasing possono essere pattuiti tassi di interesse sia in termini di TAN che di TAE, potendo l’utilizzatore contestare solo l’eventuale inadempimento del concedente per avere conseguito pagamenti in misura differente da quella pattuita.

Interessi moratori e usura: impossibile verifica

Chiarito quanto sopra, il giudice passa ad esaminare le contestazioni in punto di usura sollevate dal cliente, ricordando preliminarmente come per la verifica dell’eventuale usurarietà dei tassi corrispettivi e di quelli di mora applicati sia necessario utilizzare le formule di calcolo proposte dalla Banca d’Italia.

In relazione alla eccepita usurarietà dei tassi di mora, rileva tuttavia il Tribunale come, quanto meno allo stato, ne sia preclusa ogni verifica in termini oggettivi mancando un criterio di raffronto, ossia di un tasso soglia, che sia coerente con il valore che si vuole raffrontare.

Difatti, il Tasso Effettivo Globale Medio (c.d. TEGM), e conseguentemente il Tasso Soglia che dal primo dipende, sono determinati in forza di rilevazioni statistiche condotte esclusivamente con riferimento agli interessicorrispettivi non potendosi confrontare la pattuizione relativa agli interessi di mora con il Tasso Soglia così determinato; diversamente si giungerebbe a una rilevazione priva di qualsiasi attendibilità scientifica e logica, prima ancora che giuridica, in quanto si pretenderebbe di raffrontare fra di loro valori disomogenei (il tasso di interesse moratorio pattuito e il tasso soglia calcolato in forza di un TEGM che non considera gli interessi moratori, ma solo quelli corrispettivi).

In questa direzione, gli interessi corrispettivi e moratori rispondano a distinte funzioni, configurandosi come istituti autonomi sul piano causale, avendo l’interesse di mora una funzione sostanzialmente equiparabile a quella della clausola penale, tanto che le direttive comunitarie (art. 19Direttiva 2008/48/CE e art. 14, comma l, Direttiva 2014/17/UE) hanno sempre precisato come il TEG dovesse essere determinato senza considerare eventuali penali per inadempimento.

Chiarita la propria impostazione, il Tribunale precisa di non condividere il diverso orientamento espresso dalle Sezioni Unite con sentenza n. 19597/2020a mente della quale: “la disciplina antiusura, essendo volta a sanzionare la promessa di qualsivoglia somma usuraria dovuta in relazione al contratto, si applica anche agli interessi moratori, la cui mancata ricomprensione nell’ambito del Tasso effettivo globale medio (TEGM) non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali di cui all’art. 2, comma 1, della l. n. 108 del 1996, ove questi contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali; ne consegue che, in quest’ultimo caso, il tasso-soglia sarà dato dal TEGM, incrementato della maggiorazione media degli interessi moratori, moltiplicato per il coefficiente in aumento e con l’aggiunta dei punti percentuali previsti, quale ulteriore margine di tolleranza, dal quarto comma dell’art. 2 sopra citato, mentre invece, laddove i decreti ministeriali non rechino l’indicazione della suddetta maggiorazione media, la comparazione andrà effettuata tra il Tasso effettivo globale (TEG) del singolo rapporto, comprensivo degli interessi moratori, e il TEGM così come rilevato nei suddetti decreti. Dall’accertamento dell’usurarietà discende l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., di modo che gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi lecitamente convenuti, in applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c.; nei contratti conclusi con i consumatori è altresì applicabile la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del d.lgs. n. 206 del 2005 (codice del consumo), essendo rimessa all’interessato la scelta di far valere l’uno o l’altro rimedio”.

Il percorso motivazionale del Tribunale meneghino sul punto può essere così sintetizzato:

1) la distinta funzione degli interessi corrispettivi e moratori confligge con l’obiettivo di trovare un correttivo al TEGM ai fini di mantenere osservanza al principio di simmetria in materia di usura e interessi di mora, dal momento che TEG e TEGM dovrebbero essere istituti del tutto estranei e non collegabili alla mora, neppure quale punto di riferimento per un suo aggiustamento a posteriori;

2) le Sezioni Unite non spiegano come si possa conciliare dal punto vista sistematico il fatto che per 14 anni la rilevazione informativa fosse unitaria (maggiorazione di 2,1%, senza distinzioni) e che solo dalla fine del 2017 il dato sia stato scomposto in tre tipologie: la differente qualità dell’informazione non crea problemi sul piano ricostruttivo solo se la soluzione indicata venga proposta in una ingannevole prospettiva di determinatezza e unitarietà del dato e non, invece, in quella antecedente della conformità ai dati normativi nazionali e comunitari;

3) del tutto insoddisfacente è inoltre la soluzione offerta dalle Sezioni Unite per spiegare a quale Tasso Soglia in materia di interessi di mora si debba fare riferimento per i contratti conclusi successivamente all’entrata in vigore della Legge n. 108/1996, ma prima dell’aprile 2003, ossia in un periodo in cui la rilevazione a campione effettuata dalla Banca d’Italia non era stata ancora ripresa nei Decreti Ministeriali;

4) quanto meno contraddittoria risulta poi la decisione delle Sezioni Unite anche con riferimento agli effetti che dovrebbero discendere sugli interessi di mora, qualora pattuiti in misura superiore al Tasso Soglia moratorio: pretendere, infatti, che la sanzione ex art. 1815 c.c. debba cadere solo sulla maggiorazione dell’interesse di mora rispetto a quello corrispettivo è l’ennesimo equivoco logico, dato che i due interessi rispondono a funzioni distinte e in caso di inadempimento si sostituiscono l’uno all’altro, mentre di “maggiorazione” si può parlare solo in termini matematico espositivi;

5) infine, la contraddittorietà della sentenza delle Sezioni Unite si palesa nella soluzione adottata in caso di pattuizione di un tasso di mora usurario e di una applicazione in concreto di un tasso di mora infra soglia, per cui quest’ultimo rimane dovuto, in quanto in concreto lecito, sconfessando la già non condivisibile riconduzione a un tasso pari a quello corrispettivo ex art. 1224 c.c.

Contratto in derivati: il MtM è elemento essenziale

Quanto al contratto di Interest Rate Swap, il Tribunale accoglie l’eccezione di nullità per mancata indicazione dei criteri di calcolo del Mark lo Market (MtM).

Osserva infatti il giudice come il MtM, quale sommatoria attualizzata dei differenziali futuri attesi sulla base delle condizioni dell’indice di riferimento al momento della sua quantificazione, presuppone il richiamo al tasso di interesse di riferimento, ma necessita altresì di essere sviluppato attraverso un conteggio che, mediante il ricorso a differenti formule matematiche, consenta di procedere all’attualizzazione dello sviluppo prognostico del contratto sulla base dello scenario esistente al momento del conteggio medesimo.

Pertanto, pur non potendo essere pattuito in modo determinato, il MtMdeve essere quanto meno determinabile con indicazione espressa della formula matematica alla quale le parti intendono fare riferimento per procedere alla attualizzazione dei flussi finanziari futuri attendibili in forza dello scenario esistente.

Diversamente si consentirebbe una determinazione unilaterale e discrezionalmente collegata alla formula prescelta.

Trattandosi di un elemento caratterizzante l’oggetto del contratto, la sua assenza ne determina la nullità.

L’usura sopravvenuta non esiste

Con riferimento, da ultimo, al contratto di conto corrente, il Tribunale precisa in primo luogo come l’indagine in ordine ai presunti addebiti in conto corrente e al conseguente ricalcolo del saldo possa essere condotta limitatamente al periodo documentato da parte attrice, attraverso la produzione degli estratti conto.

Quanto alla contestata usura sopravvenuta rispetto al momento della stipula del contratto, il giudice ritiene che la stessa non sia configurabile. Sul punto la sentenza in commento si allinea a quanto statuito dalle Sezioni Unite (cfr. sentenza n. 24675/2017) le quali hanno chiarito come la disciplina dell’usura, articolata nell’art. 644 c.p. e nell’art. 1815 c.c., presupponga la nozione di usura data dalla norma penale; per cui, avendo l’art. 1 del D.L. 394/2000 dato rilievo ai fini dell’applicabilità dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 c.c. al solo momento della pattuizione, ciò comporta che in caso di usura sopravvenuta (sia per pattuizione antecedente all’entrata in vigore della L. 108/96, sia per pattuizioni originariamente infra soglia e divenute ultra soglia solo in costanza di rapporto) la clausola di pattuizione degli interessi non sia né nulla né inefficace e che la pretesa al pagamento di tali interessi non sia di per sé contraria a buona fede e a correttezza.

Quanto invece alla contestazione riguardante l’addebito illegittimo di interessi anatocistici, il Tribunale dichiara nulla la clausola contrattuale di capitalizzazione degli interessi debitori con periodicità trimestrale, in quanto in contrasto con la disciplina dettata in materia di anatocismo dall’art. 1283 c.c. senza che tale deroga possa considerarsi giustificata dalla sussistenza di usi normativi difformi.

Riferimenti normativi:

Art. 6 delibera CICR 9 febbraio 2000

Art. 19Direttiva 2008/48/CE

Art. 14Direttiva 2014/17/UE

Art. 2, comma 1, l. n. 108/1996

Art. 644 c.p.

Art. 1815, comma 2, c.c.

Art. 1224, comma 1, c.c.

Art. 33, comma 2, lett. f), d.lgs. n. 206/2005

Art. 36, comma 1, d.lgs. n. 206/2005

Art. 1 del D.L. 394/2000

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