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1. Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ed il suo differimento.

Con D. Lgs. 12 Gennaio 2019, n. 14, in attuazione della L. 19 Ottobre 2017, n. 155, è stato introdotto nel nostro ordinamento il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, complesso impianto normativo che sostituirà integralmente la vigente Legge Fallimentare, di cui al R.D. 16 Marzo 1942, n. 267.

Il ridetto Codice, quindi, impatta anche sulle disposizioni penali previste originariamente dalla Legge Fallimentare: tuttavia, per ciò che è oggetto di analisi nel presente scritto, le isolate modifiche al testo delle norme sulla bancarotta fraudolenta impropria (quali la sostituzione del termine “fallimento” con quello di “liquidazione giudiziale” all’interno del I comma dell’art. 223 L.Fall., ora art. 329 Codice della crisi; nonché, l’inserimento della parola “dissesto” in luogo di “fallimento” ex art. 223, comma II, n.2, L. Fall., ora art. 329, comma II, lett. b), Codice della crisi) non paiono produrre rilevanti conseguenze sulla disciplina in discorso.

Tale testo legislativo sarebbe dovuto entrare in vigore, ai sensi dell’art. 389 del predetto Codice, il 15 Agosto del 2020. Ciononostante, occorre rilevare come per effetto della Legge 5 Giugno 2020, n. 40, a causa della pandemia da Coronavirus, l’entrata in vigore del Codice della Crisi sia stata differita al 1 Settembre 2021, salve alcune specifiche disposizioni innovative attualmente già operanti.

Dunque, ancora oggi occorre concentrarsi sulla “vecchia” disciplina della Legge Fallimentare, tuttora vigente, nell’attesa dell’entrata in vigore del nuovo Codice.

2. Cenni sulla bancarotta fraudolenta impropria.

Il reato di bancarotta fraudolenta “impropria” o “societaria” è previsto dall’art. 223 del R.D. 16 Marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare). Tale fattispecie si distingue dalla bancarotta fraudolenta “propria”, di cui all’art. 216 L. Fall., a cagione della diversità dei soggetti attivi del reato.

Infatti, mentre l’art. 216 L. Fall. designa quale soggetto attivo del reato l’imprenditore, l’art. 223 L. Fall., diversamente, prevede quanto segue: “Si applicano le pene stabilite nell’art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo”.

Vi è dunque una rilevante distinzione sul piano soggettivo, potendo commettere il reato di cui all’art. 223 L.Fall. soltanto una ristretta cerchia di soggetti: amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite. Ben si può comprendere, dunque, come la fattispecie di bancarotta impropria venga altresì comunemente definita “bancarotta societaria”.

La norma dianzi citata opera un rinvio, quanto all’elemento materiale del reato, a tutti i fatti previsti dall’art. 216 L.Fall.: sarà dunque necessario, ai fini dell’integrazione della bancarotta fraudolenta societaria, che uno dei soggetti precisamente indicati dall’art. 223 commetta uno qualunque dei fatti di bancarotta fraudolenta previsti dalla norma richiamata (patrimoniale o documentale, pre o post fallimentare, ovvero preferenziale).

L’art. 223 L. Fall. prevede, peraltro, a fianco di tale disposizione generale, due ulteriori ipotesi di bancarotta impropria. Il comma II della norma in commento stabilisce che: “Si applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell’art. 216, se: 1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632,2633 e 2634 del codice civile; 2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”.

Proprio la disposizione di cui all’art. 223, comma II, n.2, viene in rilievo ai fini del presente articolo.

Essa contiene due fattispecie criminose che appaiono strutturalmente differenti tra loro. La prima, rappresentata dal “cagionare con dolo il fallimento della società”, integra un’ipotesi delittuosa del tutto peculiare rispetto alle altre ipotesi di bancarotta.

Invero, nel delitto di bancarotta, di regola il fallimento della società viene pacificamente annoverato tra le condizioni obiettive di punibilità; ciò non avviene, tuttavia, nella disposizione in oggetto, per la quale il fallimento assume la natura giuridica di evento del reato, con tutte le conseguenze giuridiche in tema di nesso di causalità e di elemento soggettivo del reato.

La seconda ipotesi criminosa, ossia il “cagionare per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”, è considerabile quale fattispecie residuale di bancarotta fraudolenta impropria, il cui tenore letterale, tuttavia, dà adito a differenti interpretazioni ricostruttive in tema di elemento soggettivo del reato, come si vedrà nel prosieguo.

Ad ogni modo, per operazione dolosa, si intende in genere “qualsiasi atto o complesso di atti implicanti una disposizione patrimoniale compiuti dalle persone preposte all’amministrazione della società, con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti la loro qualità, con l’intento di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, a danno della società o dei creditori, o anche con la sola intenzione di arrecare un danno alla società o ai creditori[1]”.

Secondo alcuni autori, rientrerebbero in tale definizione anche “(…) condotte prive di rilevanza penale, ma concretatesi comunque in una violazione dei doveri gravanti sui titolari di cariche societarie o in un abuso dei correlativi poteri – come ad esempio la violazione dell’obbligo di non concorrenza o l’omessa redazione del bilancio[2]”.

Tale ultima opzione interpretativa parrebbe pienamente suffragata dalla giurisprudenza dominante, la quale ritiene come, ad esempio, il sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali concreti un’ipotesi di operazione dolosa ai sensi dell’art. 223, comma II, n.2, L.Fall[3].

3. L’elemento soggettivo di cui all’art. 223, comma II, n.2: le opinioni in dottrina.

Il tratto distintivo della disposizione in oggetto è certamente rappresentato dall’elemento soggettivo necessario all’integrazione del delitto ivi previsto, che appare di notevole complessità interpretativa.

Sul punto, in dottrina convivono due differenti impostazioni.

Secondo un primo orientamento, il “cagionare con dolo il fallimento” rappresenterebbe una fattispecie delittuosa punibile a titolo di dolo diretto: il dolo diretto, come noto, rappresenta un grado intermedio di intensità del dolo, tale per cui l’agente, pur non agendo con la finalità di produrre l’evento, si rappresenta la certezza o la elevatissima probabilità della sua verificazione.

Viceversa, sempre per tale tesi, nelle “operazioni dolose che cagionano il fallimento”, la decozione sarebbe ascrivibile in capo al reo a titolo di dolo eventuale: l’agente, pur di raggiungere i propri fini, diversi dal fallimento della società, deve aver tuttavia messo in conto la realizzazione dello stesso come prezzo eventuale da pagare, a seguito di un consapevole bilanciamento di interessi in gioco.

Un secondo orientamento, invero, obietta all’impostazione poc’anzi richiamata, poiché in questo modo “(…) si rischia di assimilare troppo le due fattispecie, che si differenzierebbero, in definitiva, solo in base al tipo di dolo, mentre qui le differenze appaiono coinvolgere non solo le forme di colpevolezza, ma anche la dimensione fattuale del reato[4]”.

Tale tesi, rifacendosi anche ad un orientamento giurisprudenziale consolidato, afferma quindi che l’inciso “per effetto di operazioni dolose” dimostrerebbe la sussistenza di una particolarissima ipotesi, nella specie, di bancarotta a struttura preterintenzionale.

Appurato ciò, occorre ancora stabilire se tale modello di delitto preterintenzionale comporti un dolo misto a responsabilità oggettiva, ovvero un dolo misto a colpa, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata.

Si reputa preferibile, come si vedrà in seguito, tale ultima impostazione; secondo alcuni autori, infatti, è da ritenersi insufficiente l’operazione dolosa in sé, dovendosi richiedere un effettivo addebito di colpa in rapporto al fallimento della società, ravvisabile qualora “al momento della commissione delle operazioni dolose, il fallimento doveva rappresentare una conseguenza in concreto prevedibile e/o evitabile, proprio per evitare quella che viene definita una culpa in re ipsa[5]”.

4. Gli orientamenti giurisprudenziali.

Sul punto controverso, la giurisprudenza più recente sembrerebbe seguire le orme della dottrina, quantomeno per ciò che concerne la bipartizione interpretativa in tema di elemento soggettivo del reato.

Anche tra i Giudici della Suprema Corte, infatti, si registra una diversità di vedute sull’accezione soggettiva del fallimento cagionato per effetto di operazioni dolose, anche in rapporto alla fattispecie che immediatamente le precede, ossia il “cagionare con dolo il fallimento della società”.

Secondo una prima opzione ermeneutica, invero, “la norma di cui alla L.Fall. art. 223, comma 2, pur contemplando due fattispecie assimilabili sotto il profilo oggettivo (…), presenta differenze per quanto attiene all’elemento soggettivo, in relazione al quale descrive due ipotesi distinte, tra loro autonome: nella prima (causazione con dolo) il dissesto entra nel fuoco del dolo, e si tratta, quindi, di fattispecie di evento (costituito dal fallimento) a dolo diretto; nella seconda ipotesi (causazione per effetto di operazioni dolose), si afferma che il dissesto è l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, ma non diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione accetta la probabilità che il dissesto si verifichi (dolo eventuale)[6]”.

V’è da aggiungere, tuttavia, come la medesima pronuncia in esame, poche righe dopo, richiami anche una differente tesi, la quale afferma che il fallimento determinato per effetto di operazioni dolose costituirebbe un’ipotesi eccezionale di fattispecie a sfondo preterintenzionale; peraltro, si nota come tale diversa impostazione venga sostanzialmente condivisa dal Giudice estensore.

Non può dunque propriamente parlarsi di un contrasto giurisprudenziale sul punto, ma appare comunque opportuno richiamare questa differente valutazione interpretativa dell’elemento soggettivo di cui alla norma in discorso.

Secondo un altro orientamento, che appare consolidato, la fattispecie in parola si caratterizzerebbe quale “(…) ipotesi eccezionale di fattispecie preterintenzionale (…) (per la cui realizzazione occorre, ndr) la dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura dolosa dell’azione, costitutiva dell’operazione, a cui segue il dissesto, in uno con l’astratta prevedibilità dell’evento scaturito per effetto dell’azione antidoverosa[7]”.

E’ interessante notare, peraltro, come la giurisprudenza talvolta entri in aperta contraddizione sul coefficiente di prevedibilità dell’evento fallimentare: in particolare, una pronuncia, dopo aver sostenuto fermamente come il reato in esame costituisca un’ipotesi a sfondo preterintenzionale e, perciò, di come sia sufficiente l’astratta prevedibilità del dissesto quale effetto dell’azione antidoverosa, successivamente affermi che il dissesto debba essere sorretto da “un minimo coefficiente di prevedibilità[8]”, e, soprattutto, di come nel caso sottopostole, risultasse motivata e provata la “prevedibilità in concreto dell’irreversibile decozione[9]”.

5. Alcune considerazioni: una “frode delle etichette”?.

Un primo punto fermo: l’interpretazione letterale della norma in commento non consente di dubitare che le operazioni dolose che cagionano il fallimento costituiscano un’ipotesi eccezionale di delitto preterintenzionale.

Infatti, l’enunciato della norma (cagionare il fallimento “per effetto” di operazioni dolose), sembrerebbe protendere la volontà del legislatore verso una fattispecie delittuosa tale per cui l’evento fallimentare rappresenti un accadimento che si colloca “oltre l’intenzione” del reo.

Seppur apprezzabile, dunque, il tentativo di parte della dottrina e della giurisprudenza di ricondurre l’evento fallimentare nel fuoco del dolo eventuale, pare forse più corretto inquadrare la natura giuridica di questa particolare ipotesi di bancarotta nell’alveo del delitto preterintenzionale.

Premesso ciò, ci si addentra in un vero e proprio ginepraio quando si tenta di analizzare il coefficiente soggettivo, da richiedere in capo al reo, in ordine all’evento fallimentare.

Come noto, la struttura del delitto preterintenzionale è stata oggetto di svariate interpretazioni in dottrina ed in giurisprudenza: dolo misto a responsabilità oggettiva, ovvero dolo misto a colpa, o ancora, in tema di omicidio preterintenzionale, unicamente il dolo delle percosse o delle lesioni.

Si è visto come la giurisprudenza dominante, per la fattispecie criminosa in esame, si accontenti dell’astratta prevedibilità dell’evento fallimentare in capo al reo (pur talvolta contraddicendosi): sicchè, sostenere che il reo debba semplicemente prevedere in astratto il fallimento, altro non significa se non dare luogo ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva “mascherata”, in quanto l’astratta prevedibilità del dissesto della società rappresenta un elemento immancabilmente presente in ogni ipotesi di operazione dolosa che danneggi la società o i creditori.

Ci si trova di fronte, dunque, ad un classico caso di “frode delle etichette”, dove si riscontra una responsabilità oggettiva “mascherata” da responsabilità colpevole.

A parere di chi scrive, coglie nel segno, invece, quella tesi illuminata che richiede una responsabilità per dolo misto a colpa: dolo per le operazioni dolose e colpa per l’evento fallimentare.

Soltanto in questo modo sarà possibile salvaguardare il principio di colpevolezza, di cui all’art. 27 Cost. Come ha insegnato la Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 364/1988, non vi è spazio, nel diritto penale, per la responsabilità oggettiva, poiché trattasi di disciplina che non rispetta il principio di personalità della responsabilità penale, il quale, come noto, richiede che il fatto delittuoso possa essere ascritto all’agente soltanto quando trattasi di fatto proprio e colpevole, ancorato quantomeno ad un coefficiente soggettivo di tipo colposo.

Tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nell’ordinamento devono essere rilette alla luce del principio di colpevolezza: ed in giurisprudenza vi sono numerosi esempi di fattispecie che, nate quali ipotesi tipizzate di responsabilità oggettiva, sono state nel tempo reinterpretate, addebitando l’evento delittuoso previsto dalle medesime non sulla sola base del nesso di causalità, bensì ancorandolo ad una responsabilità per colpa, ovvero ad un coefficiente di prevedibilità in concreto dello stesso; si pensi al concorso anomalo, di cui all’art. 116 c.p., o al mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti, ex art. 117 c.p.

Anche in tema di bancarotta impropria, nell’ambito del fallimento cagionato per effetto di operazioni dolose, dunque, si auspica che la giurisprudenza compia quel passo in avanti, come avvenuto per altre fattispecie, al fine di evitare che il mero compimento di operazioni dolose che comportino il fallimento possa determinare, di per sé e sulla sola base del nesso di causalità (o di coefficienti similari, quali l’astratta prevedibilità dell’evento), la punibilità per bancarotta fraudolenta, trattandosi di fattispecie molto grave e punita severamente dal legislatore.

Occorre, perciò, una rilettura della fattispecie, richiedendo, ai fini dell’integrazione del reato, quantomeno la prevedibilità, in concreto e non in astratto, ed al momento del compimento delle operazioni censurabili, del fallimento della società.

Tale interpretazione costituzionalmente orientata appare l’unica in grado di salvaguardare il principio di colpevolezza, ex art. 27 Cost., valore fondante di tutto l’ordinamento penale, al quale in nessun caso è possibile rinunciare.

 

Fonte immagine: www.pixabay.com

[1] A. Cadoppi, S.Canestrari, A.Manna, M.Papa, Diritto Penale dell’Economia, II ediz., 2019, richiamando, a proposito di tale definizione, alcune pronunce giurisprudenziali, nonché Pedrazzi, con riferimento alla sua opera Reati Fallimentari.

[2] C. Santoriello, La bancarotta fraudolenta impropria: l’art. 223, comma 2, R.D. n.267 del 1942, disponibile su Le Società, n.5, 1 Maggio 2015.

[3] Cfr., tra le più recenti, Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 23067, 29 Luglio 2020 e Cass.Pen., Sez. V, sentenza n. 1556, 16 Gennaio 2020.

[4] A. Cadoppi, S.Canestrari, A.Manna, M.Papa, op.cit.

[5] A. Cadoppi, S.Canestrari, A.Manna, M.Papa, op.cit.

[6] Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 23067, 29 Luglio 2020.

[7] Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 30735, 12 Luglio 2019. Si veda anche Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 32350, 13 Luglio 2018.

[8] Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 32350, 13 Luglio 2018.

[9] Cass. Pen., Sez. V, cit.

 

 

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