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Il fondo patrimoniale è l’istituto giuridico mediante il quale entrambi i coniugi, uno solo o un terzo, vincolano determinati beni destinandoli al soddisfacimento dei bisogni familiari. Tale strumento è stato introdotto solo dopo la riforma del diritto di famiglia avvenuta nel 1975, sostituendo il precedente istituto denominato “patrimonio familiare”. Le differenze tra i due istituti erano varie. Ci riferiamo alla loro costituzione, in quanto nel patrimonio familiare era sufficiente la volontà di un solo coniuge e i benefici conferiti si riflettevano solo su di esso, mentre nel fondo patrimoniale è necessaria la volontà di entrambi i coniugi; ulteriore differenza riguardava l’amministrazione di tali beni, che nel patrimonio familiare ricadeva solo al coniuge proprietario dei beni, mentre nel fondo patrimoniale l’amministrazione appartiene ad entrambi i coniugi.

La disciplina

La possibilità di costituire il fondo patrimoniale è riconosciuta all’interno del codice civile dagli artt. 167 e ss.. La sua istituzione può avvenire per convenzione matrimoniale stipulata, anche successivamente al matrimonio, sotto forma di atto pubblico dinanzi ad un notaio. Non è comunque da escludere che durante il corso degli anni il fondo venga accresciuto mediante nuovi conferimenti dei coniugi o del terzo. Una volta costituito, è necessario procedere all’annotazione a margine dell’atto di matrimonio. Tale annotazione è necessaria per far sì che il fondo patrimoniale diventi opponibile ai terzi.

Discussa in dottrina è la natura dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale. L’orientamento maggioritario riconduce l’atto costitutivo del fondo all’interno degli atti a titolo gratuito; altro orientamento si spinge oltre, definendo il fondo patrimoniale come un vero e proprio atto di liberalità, con la consequenziale necessità di rifarsi alla disciplina della donazione per quanto non è stato previsto dal legislatore all’interno degli artt. 167 c.c. e ss.

Oggetto del fondo patrimoniale possono essere esclusivamente beni immobili, beni mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito. Detti beni non possono formare oggetto di più fondi patrimoniali destinati alla soddisfazione di più famiglie, in quanto il vincolo di destinazione può riguardare esclusivamente i bisogni di una sola famiglia. Per quanto riguarda i frutti di codesti beni e il ricavato dalla loro alienazione, rimangono anch’essi vincolati al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Salvo che sia diversamente stabilito, la proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi, i quali diventano contitolari per quote uguali. Può quindi accadere che la proprietà dei beni spetti solo a uno dei coniugi, oppure ad entrambi ma in quote diseguali; nell’ipotesi in cui sia il terzo a costituire il fondo, può accadere che lo stesso riservi a se la proprietà dei beni, ed in questo caso si ha una situazione analoga alla nuda proprietà, essendo stato concesso semplicemente un usufrutto.

L’amministrazione dei beni costituenti il fondo è modellata secondo le norme che regolano l’amministrazione della comunione legale, quindi spetta ad entrambi i coniugi; ricordando la differenza tra atti di ordinaria amministrazione, che possono essere compiuti in modo disgiunto, e atti di straordinaria amministrazione, dove è necessario un agire congiunto. In quest’ultimo caso se uno dei coniugi nega il proprio consenso al compimento di un atto di straordinaria amministrazione, l’altro coniuge può ottenere dal giudice l’autorizzazione a compiere l’atto, solo se dimostra che questo risponde agli interessi della famiglia.  Per quanto riguarda l’alienazione dei beni costituenti il fondo, la loro messa in pegno o ipoteca, ove non sia stato diversamente previsto nell’atto di costituzione, si richiede il consenso di entrambi i coniugi, e l’autorizzazione del giudice se vi siano figli minori.

Il fondo patrimoniale cessa di esistere con l’annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; nel caso in cui vi siano figli minori, il fondo permane sino al compimento della maggiore età da parte del figlio nato per ultimo. Mentre risulta pacifico che il fondo non venga meno con l’esaurimento dei beni, che lo compongono, in quanto come abbiamo detto poco prima, sono possibili successivi conferimenti; altrettanto non può dirsi nell’ipotesi in cui vi sia la volontà per mutuo consenso dei coniugi alla cessazione del fondo patrimoniale. L’impasse sta nella natura dall’art. 171 c.c. che elenca i casi di cessazione del fondo. Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza le ipotesi previste dal codice sono assolutamente tassative, mentre dall’altra l’orientamento maggioritario (che illustreremo successivamente) considera rientrante fra le cause legittime di scioglimento del fondo la risoluzione ad opera dei coniugi, allorquando non siano presenti figli minori; reputando altresì ammissibile lo scioglimento consensuale dello stesso pure in presenza di figli minori e senza alcuna autorizzazione giudiziale, essendo però necessaria la nomina di un curatore speciale del minore.

In definitiva, l’effetto maggiormente rilevante collegato alla costituzione dell’istituto in oggetto è rappresentato dal fatto che i creditori dei coniugi non possono soddisfarsi sui beni vincolati dal fondo patrimoniale per debiti contratti per scopi “estranei ai bisogni della famiglia”, limitando in questo modo la possibilità, per una determinata categoria di creditori, di agire esecutivamente sui beni vincolati. Nel caso in cui, però, un credito sia sorto prima della costituzione del fondo patrimoniale il creditore ha la possibilità di tutelarsi proponendo l’azione revocatoria prevista all’art. 2901 c.c.. In tale ipotesi chi esercita l’azione avrà l’onere di dimostrare che il fondo patrimoniale è stato costituito con lo scopo e volontà di arrecare un pregiudizio ai suoi interessi. Va ribadito che i debiti tutelati dal fondo patrimoniale non sono tutti quelli dei coniugi, ma unicamente quelli sorti dopo l’annotazione dello stesso sull’atto di matrimonio. Per di più, in riferimento ai debiti sorti successivamente a tale data, il fondo limita la sua efficacia a quelli che sono relativi al soddisfacimento di esigenze della famiglia, mentre non è opponibile ai crediti che sono sorti per finalità voluttuarie o accessorie.

Prima di addentrarci sulle problematiche da affrontare, di rilievo pratico è comprendere se il fondo patrimoniale venga considerato un regime patrimoniale ulteriore rispetto a quello dalla comunione legale o della separazione dei beni. La disciplina del fondo patrimoniale si colloca all’interno del capo VI del codice civile intitolato “dal regime patrimoniale della famiglia”, questo però non sta a significare che venga ad essere identificato automaticamente come regime alternativo rispetto ai primi due appena menzionati; in quanto il fondo patrimoniale è un regime facoltativo e integrativo. Facoltativo proprio perché è nell’autonomia dei coniugi di scegliere se ricorrervi, integrativo perché deve obbligatoriamente convivere con almeno uno dei regimi patrimoniali generali.

L’analisi di tipo giurisprudenziale

Passiamo adesso ad una analisi di tipo giurisprudenziale, sui temi della derogabilità della disciplina legale di alienazione dei beni da parte dei coniugi in sede costituiva ex art 169 c.c., nonché al tema della estensione interpretativa del sintagma “bisogni della famiglia” previsto all’art. 170 c.c.

L’art. 169 c.c. disciplina la possibilità di alienazione, di porre ipoteca, pegno o comunque vincolare i beni del fondo patrimoniale, se non è stato diversamente previsto, con il consenso di entrambi i coniugi, e se vi sono figli minori con l’autorizzazione da parte del giudice nei soli casi di necessità od utilità evidente. Questo articolo è stato da sempre oggetto di vivace discussione, sia in dottrina che in giurisprudenza, soprattutto in caso di amministrazione dei bendi del fondo in presenza di figli minori. L’art. 169 c.c. fa riferimento a due elementi che sono oggetto di contrasto: il primo riguarda la deroga al consenso congiunto; il secondo concerne la deroga relativa all’autorizzazione giudiziale.

Relativamente al primo punto la dottrina maggioritaria è concorde nel ritenere che la deroga al consenso congiunto si possa avere nel caso in cui uno dei coniugi non abbia trasferito la proprietà del bene, riservandosela; in questo caso lui sarà l’unico titolare del bene e pertanto sarà il solo che ne potrà disporre. Altra ipotesi che nella realtà potrebbe configurarsi, è quella in cui il fondo venga costituito da un terzo che trasferisca la proprietà del bene solo ad uno dei due coniugi.

Per quanto riguarda la deroga all’autorizzazione giudiziale, la situazione sembra più complessa a causa dei molteplici orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che non sempre vanno di pari passo. Secondo parte della dottrina l’articolo 169 c.c. non consente la deroga in presenza di figli minorenni, in quanto collegavano in modo simbiotico l’articolo in commento e il disposto dell’art. 171 c.c. che, oltre a enunciare le ipotesi di cessazione del fondo, prevede la possibilità del giudice di dettare norme per l’amministrazione del fondo in presenza di figli minori fino al compimento della maggior età. Altra parte della dottrina si basava su una interpretazione letterale della norma, secondo la quale il legislatore non ha posto alcuna distinzione tra figlio minore o maggiore di età e che, pertanto, tale deroga all’autorizzazione giudiziale fosse possibile in ogni fattispecie. Tuttavia la mancanza dell’autorizzazione giudiziale è fatta salva nei soli casi di “necessità od utilità evidente” per il minore, requisito assolutamente imprescindibile e non derogabile. Dal punto di vista giurisprudenziale negli ultimi anni vi sono state numerose sentenze che hanno cercato di mettere un punto fermo su queste problematiche. Di particolare rilievo è sicuramente l’orientamento della Corte di Cassazione che con una sentenza del 2014 n. 17811 si è imposta nel panorama giuridico, sancendo la possibilità per i coniugi di sciogliere consensualmente il fondo patrimoniale anche in presenza di figli minori, che dovranno comunque essere rappresentati da un curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 320 comma 6 c.c.. Questa pronuncia ha dei riflessi anche sulla possibilità di deroga ex art. 169 c.c., portando parte della dottrina a sostenere che tale norma sia applicabile anche in caso di alienazione dell’unico bene del fondo, aderendo ad una interpretazione letterale della normativa, che non distingue tra alienazione di beni del fondo o di un solo bene; e che pertanto l’art. 171 c.c. si debba applicare soltanto quando i coniugi vogliono eliminare quell’effetto segregativo imposto ai beni. Successivamente, un’altra sentenza della Cassazione del 2019 n.  22069 sembra in qualche modo proiettarci verso l’assoluta validità di quelle deroghe di alienazione dei beni del fondo senza l’autorizzazione del giudice in presenza di figli minori, proprio perché si stabilisce che “le disposizioni codicistiche a tutela del figlio, quali beneficiario del fondo, sono strumenti di protezione che non escludono, e quindi consentono, che il figlio sia anche legittimato ad agire in giudizio per far valere un proprio interesse in relazione agli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione”; tuttavia questo è possibile solo nel momento in cui i coniugi non abbiano voluto derogare all’autorizzazione giudiziale ai sensi dell’art. 169 c.c. nell’atto costitutivo del fondo.

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3) Nel suo unico comma, l’art. 170 stabilisce che “l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. I beni oggetto del fondo patrimoniale dunque non soggiacciono alla regola generale di cui all’art. 2740 del c.c., secondo la quale il debitore risponde del debito con tutti i suoi beni presenti e futuri. Essendo posto il debitore in una posizione di favore, su di lui incombe l’onere di fornire la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti fissati dalla legge perché operi la limitazione di responsabilità. Infatti, la giurisprudenza di legittimità, nel confermare che l’onere della prova dei presupposti di applicabilità dell’art. 170 c.c., grava sulla parte che intende avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, ha affermato che tale soggetto dovrà provare che il debito per cui si procede venne contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia e che il creditore ne era consapevole.

Molti dubbi sono sorti in relazione a cosa debba veramente intendersi per “bisogni della famiglia”.

Intanto bisogna chiarire di quale tipo di famiglia si parla e a chi di conseguenza sono riconducibili tali bisogni. Vi era una contrapposizione tra famiglia parentale e nucleare; la giurisprudenza ha da subito interpretato l’art. 170 c.c. in maniera limitata, facendo ricadere all’interno della famiglia esclusivamente i coniugi e i figli non coniugati, ma riconoscendo la possibilità di estensione dell’applicazione del fondo anche ai membri della famiglia parentale (es. ascendenti), a patto che vi sia una convivenza effettiva di questi con i primi.

È da evidenziare come negli anni si siano sviluppati diversi orientamenti interpretativi su che cosa rientrasse nei bisogni della famiglia. Fino a qualche tempo fa, la giurisprudenza di legittimità applicava una interpretazione molto estensiva di questa frase, facciamo riferimento a quanto detto dalla Cassazione in una sentenza del 2014 secondo la quale: “si è preferita una nozione di bisogni della famiglia piuttosto ampia, per la quale si esclude che bisogni rilevanti siano soltanto quelli essenziali del nucleo familiare, ma vi si comprendono anche altre esigenze, purché’ il loro soddisfacimento sia funzionale alla vita della famiglia. Inoltre, sì è attribuita rilevanza, non solo ai bisogni oggettivi, ma anche a quelli soggettivamente ritenuti tali dai coniugi”. La Corte continua con il precisare che il disposto dell’art. 170 c.c. andasse inteso in senso ampio, cioè comprendendo in tali bisogni anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al suo potenziamento dal punto di vista lavorativo, restando escluse solo le esigenze voluttuarie e speculative.

Rimane comunque controversa la possibilità di ricondurre a questi “bisogni” i debiti derivanti dall’attività professionale o di impresa di uno dei coniugi anche in considerazione del fatto che i redditi relativi sono di norma, ma non necessariamente, destinati al mantenimento della famiglia. Ed è proprio su questo profilo che la Corte di Cassazione non ha avuto sempre una visione unanime e costante.

Invero, la Cassazione è tornata sull’argomento cambiando parzialmente rotta rispetto ad alcune precedenti pronunce (facciamo riferimento proprio a quella pocanzi citata del 2014). Difatti, pochi mesi fa la Corte ha affermato che: “se è vera la circostanza che un debito sia sorto nell’ambito dell’impresa o dell’attività professionale del coniuge non è di per sé idonea a escludere in termini assoluti che lo stesso sia stato contratto per soddisfare i bisogni della famiglia, è altrettanto vero che di norma, secondo la comune esperienza, le obbligazioni assunte in ambito lavorativo hanno uno scopo estraneo a tali bisogni”. Questo in termini pratici sta a significare che il rapporto sussistente tra il fatto generatore del debito e i bisogni della famiglia deve essere accertata di volta in volta, tenendo conto delle circostanze specifiche del caso concreto. In sintesi, secondo la Corte le obbligazioni che riguardano l’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale hanno di norma “un’inerenza diretta e immediata” con le esigenze dell’attività medesima e possono assolvere anche al soddisfacimento dei bisogni della famiglia “solo indirettamente e mediatamente“. Di conseguenza, chi intenda far valere tale destinazione deve dimostrare che diversamente da quello che accade di solito (id quod plerumque accidit), l’atto di assunzione del debito è eccezionalmente volto a soddisfare immediatamente e direttamente i bisogni della famiglia.

 

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