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L’accertata nullità della clausola contrattuale sulla capitalizzazione degli interessi, in esecuzione della quale sia stato eseguito un pagamento, dà luogo ad un’azione di ripetizione d’indebito oggettivo, volta ad ottenere la condanna alla restituzione della prestazione eseguita in adempimento della clausola nulla, il cui termine di prescrizione inizia a decorrere non già dalla data di annotazione degli interessi nel conto corrente, ma da quella – successiva – del pagamento.


Lo ha stabilito il Tribunale di Brindisi, con sentenza in data 18 febbraio 2012.


Nota di Valerio Sangiovanni


[Si riproduce per gentile concessione dell’autore Valerio Sangiovanni, relatore del Master breve in diritto bancario e finanziario, Altalex Formazione, e dell’editore Ipsoa Wolters Kluwer, Corriere del merito, 2012, pp. 893-901]


Osservazioni introduttive


Le banche sono solite prevedere nei contratti il diritto di capitalizzare, a determinate scadenze, gli interessi. Il problema che si è posto nel corso degli anni è se la clausola di capitalizzazione sia legittima: la soluzione fatta propria dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione è nel senso che la clausola sia nulla. Affermata la nullità, il cliente bancario può pretendere – secondo la regola generale (art. 2033 c.c.) – la restituzione degli interessi anatocistici che sono stati illegittimamente addebitati. La sentenza in esame si sofferma su tale aspetto, pervenendo al risultato che il termine di prescrizione (decennale) decorre non tanto dai singoli addebiti in conto corrente quanto piuttosto dal momento in cui il rapporto contrattuale viene chiuso.


La sentenza del Tribunale di Brindisi in commento si occupa di nullità contrattuale e della conseguente azione di ripetizione dell’indebito. La vicenda affrontata dall’autorità giudiziaria brindisina è piuttosto risalente nel tempo ed è stata preceduta da due altre sentenze, una del medesimo Tribunale di Brindisi e una della Corte di appello di Lecce. Con tali due sentenze era stata dichiarata la nullità di alcune clausole contrattuali, e segnatamente di quella che determina gli interessi convenzionali facendo riferimento all’“uso piazza”, di quella relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi e di quella concernente l’addebito di spese e commissioni. A seguito della declaratoria di nullità l’attore esercita ora nei confronti della banca l’azione di ripetizione dell’indebito. Tale azione viene però rigettata dal Tribunale di Brindisi sulla base dell’assunto che il diritto alla ripetizione si è nel frattempo prescritto, essendo trascorsi più di dieci anni dalla chiusura del conto.


La sentenza in commento è particolarmente interessante in quanto consente di distinguere fra la prescrizione dell’azione di nullità (non possibile, in quanto imprescrittibile) e quella dell’azione di ripetizione di quanto indebitamente percepito sulla base di un titolo nullo (prescrittibile, invece). Il punto è che la prima sentenza del Tribunale di Brindisi (e quella di appello) non si erano pronunciate in materia di restituzioni conseguenti alla nullità. L’attore si trova pertanto costretto a una nuova azione in giudizio, la quale viene però rigettata per intervenuta prescrizione. In definitiva l’interesse sostanziale del correntista, consistente nella restituzione delle somme ingiustamente addebitate, non riesce a trovare soddisfazione.


Fra le voci di addebito contestate dall’attore, quella economicamente più significativa riguarda gli interessi anatocistici ed è su questo profilo che ci soffermeremo nel nostro commento. Le evoluzioni giurisprudenziali e normative che si susseguono ormai da decenni dimostrano la sensibilità del mondo bancario per il tema “anatocismo”[2]. Per anatocismo si intende la previsione contrattuale per la quale gli interessi che la controparte della banca è tenuta a pagare in forza di un determinato rapporto vengono a un certo punto “capitalizzati” (cioè considerati non più come interessi, ma come capitale), con la conseguenza che anche su di essi possono essere addebitati interessi. Tale meccanismo di capitalizzazione può operare a diverse scadenze (trimestrale, semestrale o annuale).


L’anatocismo è attualmente disciplinato in tre testi: il codice civile in via generale, il t.u.b. per i profili bancari e una deliberazione CICR attuativa delle disposizioni di legge. L’anatocismo è regolato anzitutto nell’art. 1283 c.c., secondo cui, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi. Nel t.u.b. vi è poi una delega al CICR, il quale viene incaricato di stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori (art. 120, comma 2, t.u.b.)[3]. La normativa CICR di riferimento è la delibera 9 febbraio 2000[4].


Il contenzioso in corso davanti ai giudici italiani concerne prevalentemente contratti molto datati. Spesso i tribunali si trovano pertanto ad affrontare la questione della prescrizione delle pretese avanzate dai clienti bancari, come del resto dimostra la sentenza in commento.


Cenni alla distinzione fra usi negoziali e normativi


La particolarità dell’art. 1283 c.c., sulla quale si concentra il contenzioso, è che vengono fatti salvi gli “usi contrari”: in presenza di usi contrari non operano i limiti all’anatocismo indicati da tale disposizione[5]. La giurisprudenza degli ultimi anni mostra che al centro delle controversie in materia di anatocismo vi è frequentemente l’eccezione delle banche di sussistenza di un uso contrario, che legittimerebbe gli interessi su interessi[6]. Gli interventi giurisprudenziali si sono così concentrati sulla natura degli usi di cui discorre l’art. 1283 c.c.


La distinzione da operarsi in generale è quella fra uso negoziale e uso normativo. L’uso negoziale è la fattispecie indicata nell’art. 1340 c.c., secondo cui le clausole d’uso s’intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti. L’uso normativo è invece la diversa ipotesi di cui si trova traccia nelle preleggi. In tale sede, dopo l’affermazione che gli usi sono fonti del diritto (art. 1 preleggi), si stabilisce che nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati (art. 8, comma 1, preleggi). A differenza degli usi negoziali, gli usi normativi sono vere e proprie norme. Secondo le indicazioni della giurisprudenza, gli elementi dell’uso normativo sono due: l’uno, esteriore, costituito da un mero fatto consistente nella ripetizione uniforme e costante di un dato comportamento; l’altro, psicologico, consistente nella convinzione di osservare, così operando, una norma giuridica[7]. L’uso normativo opera automaticamente, mentre l’uso negoziale – in quanto operante sullo stesso piano delle clausole contrattuali – non può considerarsi inserito nel contratto se non in virtù di un’espressa o implicita manifestazione di volontà[8].


La questione della natura degli usi concernenti l’anatocismo è stata da sempre dibattuta, come dimostra la presenza di sentenze contrastanti sul punto. Al fine di porre termine ai contrasti giurisprudenziali, si è pronunciata – nel 2004 – la Corte di cassazione a Sezioni Unite[9], con una decisione di grande rilievo per lo svilupparsi di tutta la successiva giurisprudenza. Le Sezioni Unite affermano che gli “usi contrari” suscettibili di derogare al precetto dell’art. 1283 c.c. sono veri e propri “usi normativi”, consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio). Secondo la Cassazione, dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Si tratta di un atteggiamento psicologico lontano dalla spontanea adesione a un precetto giuridico.


La nullità della clausola di capitalizzazione e i suoi effetti


Alla luce della decisione delle Sezioni Unite, le clausole contrattuali che prevedono la capitalizzazione degli interessi sono contrarie a legge e, come tali, nulle. Il principio può ormai considerarsi consolidato, essendo stato ripetuto in più occasioni dalla Corte di cassazione.


Bisogna poi accennare agli effetti della nullità. Al riguardo va subito osservato che la nullità della singola clausola non determina la nullità dell’intero contratto. Secondo la disposizione generale la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità (art. 1419, comma 1, c.c.). Escluso che si possa determinare la nullità dell’intero contratto per effetto della previsione anatocistica, la sola clausola nulla si considera come non apposta, con la conseguenza che è improduttiva di effetti. Le prestazioni che sono già state effettuate sulla base della pattuizione nulla vanno restituite. Più precisamente si verifica un indebito oggettivo: secondo la previsione di legge, chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato (art. 2033 c.c.). La Corte di cassazione ha stabilito che sussiste indebito oggettivo tutte le volte in cui manchi la causa della prestazione e l’accipiens non abbia titolo per riceverla: tanto accade nei casi di nullità del contratto, ove l’azione diventa esperibile per la restituzione delle prestazioni rese in base a esso, ma anche nei casi di nullità di specifiche clausole contrattuali (per la restituzione delle corrispondenti prestazioni e controprestazioni da tali clausole originate)[10].


Recentemente le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno specificato che qualora, nell’ambito del contratto di conto corrente bancario, venga dichiarata la nullità della previsione di capitalizzazione trimestrale degli interessi, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c., gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna[11]. Con questa statuizione si chiarisce che sono illegittime tutte le clausole che prevedono la capitalizzazione, indipendentemente dalla circostanza che essa operi trimestralmente, semestralmente oppure annualmente[12]. Con la declaratoria di nullità, la clausola sulla capitalizzazione viene definitivamente espunta dal contratto e impossibilitata a produrre effetti ex tunc.


Infine, dal punto di vista processuale si può osservare che la nullità – secondo la regola generale (art. 1421 c.c.) – può essere rilevata d’ufficio dal giudice[13]. In un intervento molto recente, la Corte di cassazione ha ribadito che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ottenuto da una banca nei confronti del correntista, la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente sul saldo passivo, in quanto stipulata in violazione dell’art. 1283 c.c., è rilevabile d’ufficio ex art. 1421 c.c., anche in sede di gravame, qualora vi sia contestazione – ancorché per ragioni diverse – sul titolo posto a fondamento della domanda degli interessi anatocistici, rientrando nei compiti del giudice l’indagine in ordine alla sussistenza delle condizioni dell’azione[14].


La prescrizione del diritto del cliente bancario alla ripetizione


L’aspetto più importante trattato nella sentenza in commento concerne la prescrizione del diritto del cliente di ripetere le somme illegittimamente addebitate dalla banca a titolo di interessi anatocistici[15]. Il Tribunale di Brindisi afferma che tale prescrizione si è verificata, accogliendo l’eccezione sollevata dalla banca.


Il problema della prescrizione è rilevante nel contesto dell’anatocismo in quanto le annotazioni sul conto di interessi anatocistici possono essere particolarmente risalenti nel tempo e le pretese alle restituzioni potrebbero, per tale ragione, reputarsi oggi (in tutto o in parte) prescritte. A seconda della durata del termine di prescrizione (cinque oppure dieci anni) e del momento di decorso del medesimo (dai singoli addebiti oppure dalla chiusura del rapporto), le pretese alla restituzione possono o meno essersi prescritte.


Al fine d’identificare la corretta durata del termine di prescrizione, bisogna individuare l’azione che il cliente fa valere nei confronti della banca. Tipicamente la domanda avanzata dall’utente bancario è doppia: declaratoria di nullità della clausola di capitalizzazione e (conseguente) restituzione degli interessi illegittimamente addebitati. Nel caso deciso dal Tribunale di Brindisi, peraltro, l’unica azione originariamente esercitata è stata quella di declaratoria di nullità e non quella di ripetizione dell’indebito. Ciò ha reso necessario un secondo processo civile, nel corso del quale la domanda dell’attore non è stata accolta per intervenuta prescrizione. La legge prevede che l’azione per far dichiarare la nullità in sé considerata non è soggetta a prescrizione, tuttavia le azioni di ripetizione si possono prescrivere (art. 1422 c.c.). Il senso della disposizione è che la nullità è più importante della ripetizione degli indebiti (conseguente alla nullità) e, per tale ragione, può essere sempre fatta valere. Lo scopo primario della norma è quello di eliminare la causa di nullità; la rimozione dei suoi effetti (= obblighi restitutori) è invece una conseguenza eventuale che richiede un’apposita domanda da parte dell’attore[16]. L’eccezione della banca fondata sulla prescrizione dell’azione di nullità è pertanto destinata a essere rigettata, diversamente dall’eccezione relativa alla prescrizione dell’azione di ripetizione, laddove sia passato troppo tempo. Con riferimento alla durata del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione degli interessi anatocistici indebitamente addebitati, si tratta della prescrizione ordinaria: i diritti si estinguono con il decorso di dieci anni (art. 2946 c.c.).


Con riguardo al momento da cui decorre il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito, la disposizione generale di riferimento è l’art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. La Corte costituzionale, nella recentissima sentenza che esamineremo in maggior dettaglio nel prosieguo, ha avuto modo di osservare che si tratta di una norma di carattere generale, dalla quale si evince che presupposto delle prescrizione è il mancato esercizio del diritto da parte del suo titolare[17]. La forma elastica usata dal legislatore si spiega con l’esigenza di adattarla alle concrete modalità dei molteplici rapporti dai quali i diritti soggetti a prescrizione nascono. Il principio vale peraltro quanto manchi una specifica statuizione legislativa sulla decorrenza della prescrizione: sia nel codice civile sia nella legislazione speciale sono numerosi i casi in cui la legge collega il dies a quo della prescrizione a circostanze o eventi determinati.


Nel contesto della ripetizione d’interessi anatocistici ingiustamente addebitati sono in sostanza possibili due interpretazioni. Secondo una prima interpretazione andrebbero tenuti distinti i singoli addebiti e il diritto alla restituzione si prescrive con il decorso di dieci anni da ogni addebito. Secondo una seconda interpretazione, invece, i diritti si prescrivono decorso il termine di dieci anni dal momento in cui è stato chiuso il conto corrente utilizzato per gli addebiti. La distinzione è evidentemente di estrema rilevanza pratica, in quanto la seconda interpretazione consente la ripetizione anche a lunga distanza di tempo, mentre la prima produce di fatto l’effetto di rendere impossibile la restituzione tutte le volte in cui gli addebiti siano particolarmente risalenti nel tempo, come avviene frequentemente nella prassi.


La giurisprudenza, fino al 2010, si era divisa in materia. Con riferimento alla prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito nascente da operazioni bancarie regolate in conto corrente, nella giurisprudenza di merito si era formato un orientamento, peraltro minoritario, secondo cui la prescrizione del menzionato diritto decorreva dall’annotazione dell’addebito in conto, in quanto, benché il contratto di conto corrente bancario fosse considerato come rapporto unitario, la sua natura di contratto di durata e la rilevanza dei singoli atti di esecuzione giustificavano quella conclusione. In particolare gli atti di addebito e di accredito, fin dalla loro annotazione, producevano l’effetto di modificare il saldo e di determinare in tal modo la somma esigibile dal correntista.


A tale indirizzo si contrapponeva, sempre nella giurisprudenza di merito, un orientamento di gran lunga maggioritario secondo cui la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito doveva decorrere dalla chiusura definitiva del rapporto, considerata la natura unitaria del contratto di conto corrente bancario, il quale darebbe luogo a un unico rapporto giuridico, ancorché articolato in una pluralità di atti esecutivi: la serie successiva di versamenti e prelievi comporterebbe solamente variazioni quantitative del titolo originario costituito fra banca e cliente; solo con la chiusura del conto si stabilirebbero in via definitiva i crediti e i debiti delle parti e le somme trattenute indebitamente dall’istituto di credito potrebbero essere oggetto di ripetizione.


In considerazione di tali contrasti giurisprudenziali, anche la questione della definizione del momento di decorso del termine di prescrizione (come quella relativa alla natura degli usi anatocistici esaminata sopra) è divenuta oggetto di una – importante – sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione[18]. La Cassazione ha deciso che se – dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente – il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.


Per arrivare a questa conclusione la Corte di cassazione si basa sull’interpretazione della disciplina legislativa del contratto di apertura di credito bancario (art. 1842 ss. c.c.)[19]. Alcune considerazioni su questo tipo di contratto sono allora importanti al fine di capire il ragionamento della Cassazione sul momento della decorrenza del termine di prescrizione.


Secondo la definizione legislativa, con il contratto di apertura di credito bancario la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato (art. 1842 c.c.). Si può notare immediatamente la differenza rispetto al contratto di mutuo: mentre con il contratto di apertura di credito la banca si obbliga a tenere una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato a disposizione del cliente, il quale ha diritto di disporre della stessa in più volte, invece il mutuo è un contratto reale con il quale una parte consegna all’altra, che si obbliga a restituirla, una determinata quantità di danaro[20]. Tipicamente l’apertura di credito è un contratto utilizzato dall’imprenditore il quale ha bisogno, per un dato periodo di tempo (e talvolta anche per lunghi periodi), di una certa flessibilità finanziaria che gli consenta di disporre di danaro in più occasioni per le differenti esigenze dell’impresa. Il mutuo invece garantisce la corresponsione immediata di una somma per l’effettuazione di un acquisto: il caso tipico è quello del mutuo finalizzato a comprare un immobile.


Nell’apertura di credito il cliente può utilizzare anche in più riprese la somma a sua disposizione e, per l’intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli. Questa flessibilità nell’utilizzo dello strumento contrattuale risulta chiaramente dal testo della legge nel passaggio in cui si stabilisce che, se non è convenuto altrimenti, l’accreditato può utilizzare più volte il credito e può con successivi versamenti ripristinare la sua disponibilità (art. 1843, comma 1, c.c.). Il contratto di apertura di credito può nei fatti durare anche molti anni e non si scioglie per il mero fatto che, in un dato momento, la situazione debitoria dell’accreditato sia venuta meno. La causa di tale contratto è proprio quella di garantire uno strumento di finanziamento flessibile, che può essere utilizzato a seconda dei bisogni (variabili) dall’imprenditore. Può pertanto capitare che, in certe fasi, l’accreditato non versi in alcuna situazione debitoria nei confronti della banca: non per questo il contratto si scioglie. Anzi, la legge si premura di specificare che non viene meno neppure l’eventuale garanzia concessa: se per l’apertura di credito è data una garanzia reale o personale, questa non si estingue prima della fine del rapporto per il solo fatto che l’accreditato cessa di essere debitore della banca (art. 1844, comma 1, c.c.).


La Corte di cassazione fonda la sua interpretazione sul dato testuale dell’art. 2033 c.c., che esige un “pagamento” non dovuto. Nel caso dell’apertura di credito, non vi è in pendenza di rapporto un tale pagamento, ma solo un ripristino della disponibilità utilizzabile a credito. Solo alla cessazione della relazione contrattuale residua un debito nei confronti della banca, che deve essere onorato. Nel corso del rapporto possono essere addebitati (o meglio: annotati sul conto) interessi al correntista, ma tali addebiti non implicano un pagamento immediato nei confronti della banca: non vi è alcuno spostamento patrimoniale che configuri un pagamento in senso tecnico.


Più precisamente la Corte di cassazione distingue due fattispecie: la prima in cui non vi è, in pendenza di rapporto, alcun versamento da parte dell’accreditato; la seconda in cui l’accreditato provvede a effettuare uno o più versamenti.


La prima ipotesi è quella in cui non vengono effettuati versamenti. Se, pendente l’apertura di credito, il correntista non si è avvalso della facoltà di effettuare versamenti, la Cassazione ritiene che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il danaro in concreto utilizzato. In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo d’interessi in misura non consentita, l’eventuale azione di ripetizione d’indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà pertanto a decorrere il relativo termine di prescrizione.


La seconda ipotesi è quella in cui vengono effettuati versamenti. La Corte di cassazione continua affermando che, qualora durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo cui non accede alcuna copertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere.


Secondo le Sezioni Unite, un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto, né esigibile), bensì quello di riespandere la misura dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina) la facoltà d’indebitamento del correntista; e la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si traduce in un’indebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi. Di pagamento potrà parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto.


L’ultimo tentativo di riforma legislativa e l’intervento della Corte costituzionale


Come segnalavamo in apertura, la questione dell’anatocismo è particolarmente delicata per il mondo bancario, che teme di vedersi esposto a numerose citazioni in giudizio di propri clienti finalizzate alla restituzione di somme ingiustamente addebitate nel corso degli anni. Per questa ragione, l’intervento delle Sezioni Unite del 2010 che ha dichiarato che la prescrizione decorre solo dalla chiusura del conto è stata recepita negativamente dalle banche, che hanno fatto pressione sul legislatore per l’adozione di una disposizione particolare in tema.


Il nostro legislatore non è rimasto insensibile alle pressioni del settore bancario e ha adottato una disposizione ad hoc, finalizzata a disciplinare la materia della prescrizione nei contratti bancari. Più precisamente con l’art. 2, comma 61, l. n. 10/2011, il legislatore ha previsto che “in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, l’art. 2935 c.c. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge”[21]. Questa disposizione aveva l’obiettivo di “correggere” i risultati cui era pervenuta la sentenza delle Sezioni Unite. La norma si riferisce alla “annotazione”, quale elemento da tenersi distinto dal vero e proprio “pagamento”. Con il termine annotazione si indica il fatto che una certa somma viene indicata, contabilmente, come dovuta dall’accreditato. Tale somma verrà richiesta dalla banca, e pagata dall’accreditato, solo alla fine del rapporto. L’art. 2, comma 61, l. n. 10/2011 aveva dunque l’obiettivo di anticipare il momento del decorso del termine di prescrizione alla data in cui si era verificata la mera annotazione, indipendentemente dal pagamento (che sarebbe avvenuto più tardi alla chiusura del rapporto).


La Corte costituzionale è però intervenuta dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, l. n. 10/2011[22]. Il giudice delle leggi parte dalla considerazione che tale disposizione si auto-qualifica di interpretazione e, dunque, spiega efficacia retroattiva. Ma la medesima Corte costituzionale ha già affermato che il legislatore può emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale. La norma che deriva dalla legge d’interpretazione autentica, quindi, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario. In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo, in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore, a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale. Accanto a tale caratteristica, la Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, fra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto d’introdurre una ingiustificata disparità di trattamento, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto, la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.


Secondo la Corte costituzionale l’art. 2, comma 61, l. n. 10/2011, con la sua efficacia retroattiva, lede il canone generale della ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost.), in quanto essa è intervenuta sull’art. 2935 c.c. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perché, in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente (come si è visto sopra), a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario in detta giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede di legittimità e aveva condotto a individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso del suddetto termine.


La Corte costituzionale ha ribadito che la ripetizione dell’indebito oggettivo postula un pagamento che, avuto riguardo alle modalità di funzionamento del rapporto di conto corrente, spesso si rende configurabile soltanto all’atto della chiusura del conto. Ne deriva che ancorare con norma retroattiva la decorrenza del termine di prescrizione all’annotazione in conto significa individuarla in un momento diverso da quello in cui il diritto può essere fatto valere, secondo la previsione dell’art. 2935 c.c. Pertanto la norma censurata, lungi dall’esprimere una soluzione ermeneutica rientrante fra i significati ascrivibili all’art. 2935 c.c., a esso nettamente deroga, innovando rispetto al testo previgente, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione. Secondo il giudice delle leggi l’efficacia retroattiva della deroga rende asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il termine di prescrizione, finisce per ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in particolare pregiudicando la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all’entrata in vigore della norma denunziata, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate.


Infine la Corte costituzionale osserva che l’art. 2, comma 61, l. n. 10/2011 è costituzionalmente illegittimo anche per un altro profilo. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia. Nel caso della decorrenza del termine di prescrizione per l’azione di ripetizione di interessi anatocistici non sussistono motivi imperativi d’interesse generale idonei a giustificare l’effetto retroattivo.


Alla luce di questo importante intervento della Corte costituzionale, in conclusione rimangono sostanzialmente fermi – in tema di prescrizione dell’azione di ripetizione d’interessi anatocistici ingiustamente addebitati – i principi enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella sentenza del 2010.


(Altalex, 14 settembre 2013.)


_______________


 [1] L’autore è componente dell’organo decidente dell’Arbitro Bancario Finanziario, ma le opinioni espresse in questa nota sono di natura personale e non possono vincolare l’organo di appartenenza.


[2] La dottrina sull’anatocismo è veramente ampia. Cfr. anzitutto AA.VV., L’anatocismo nei contratti e nelle operazioni bancarie, a cura di Capaldo, Padova, 2010; Colombo, L’anatocismo, Milano, 2007; De Marco, L’anatocismo bancario: analisi di una vicenda giurisprudenziale, Napoli, 2010; Riccio, L’anatocismo, Padova, 2002; N. Salanitro, Gli interessi bancari anatocistici, Milano, 2004. V. inoltre, per limitarsi a citare solo alcuni dei più recenti contributi, Agnino, Anatocismo: tra divieti consolidati e questioni ancora dibattute, in Corr. giur., 2011, 1712 ss.; Celardi, L’anatocismo bancario nella giurisprudenza di legittimità, in Giust. civ., 2011, I, 2335; D’Auria, Capitalizzazione degli interessi: nullità e profili d’interpretazione contrattuale, in Giur. it., 2011, 2078 ss.; Nanna, Asimmetrie contrattuali e ripetibilità degli interessi anatocistici, in Contratti, 2011, 226 ss.; Porto, L’anatocismo bancario tra conferme e problemi irrisolti, in Rass. dir. civ., 2011, 277 ss.; Rizzuti, Gli ultimi progressi in tema di anatocismo bancario, in Giur. it., 2011, 1548 ss.; Rolfi, Le Sezioni Unite e l’anatocismo: non è tutto oro quel che luccica, in Corr. giur., 2011, 821 ss.; Semeraro, Equilibrio del contratto e del rapporto nel c.d. anatocismo bancario, in Rass. dir. civ., 2011, 974 ss.


[3] Riguardo all’art. 120 t.u.b. v. in particolare Porzio, Commento all’art. 120, in AA.VV., Testo unico bancario. Commentario, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina e Santoro, Milano, 2010, 1008 ss.


[4] Sulla deliberazione CICR 9 febbraio 2000, recante “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria” cfr. De Gioia-Carabellese, L’anatocismo nei rapporti fra banca e cliente: la deliberazione del CICR, in Contratti, 2000, 411; De Iuliis, Riflessioni in tema di capitalizzazione degli interessi alla luce della deliberazione CICR 9 febbraio 2000, in Contr. impr., 2000, 736 ss.; Garilli, L’anatocismo nei rapporti bancari alla luce della deliberazione CICR 9 febbraio 2000, in Dir. banca merc. fin., 2001, I, 165 ss.


[5] In materia di usi in generale cfr. Addis, Le clausole d’uso nei mercati regolati dalle Autorità indipendenti, in Riv. dir. priv., 2003, 319 ss.; Del Prato, Fonti legali ed usi, in Riv. dir. civ., 2002, II, 515 ss.; Milone, Spettacolo teatrale troppo breve: violazione del principio di buona fede o inosservanza degli usi negoziali?, in Dir. giur., 2009, 462 ss.; Muraro, Prassi, usi negoziali e usi normativi, in Nuova giur. civ. comm., 1999, II, 443 ss.; Quadri, Gli usi nella disciplina del contratto: spunti per una ricostruzione unitaria, in Contr. impr., 2009, 1065 ss.; Sgroi, Clausole d’uso, clausole vessatorie e clausole abusive, in Giust. civ., 2001, II, 115 ss.


[6] Sul dibattito relativo alla natura degli usi nella previsione di interessi anatocistici v. Cicoria, Interessi anatocistici e contratto di mutuo: brevi considerazioni sul processo di formazione degli “usi contrari”, in Dir. giur., 2003, 326 ss.; Di Pietropaolo, Gli “usi contrari” di cui all’art. 1283 c.c. e la “validità sopravvenuta” delle clausole bancarie anatocistiche, in Giust. civ., 2000, I, 2049 ss.; Malagrida, La capitalizzazione degli interessi e l’anatocismo bancario: usi normativi ed usi negoziali, in Dir. fall., 2008, II, 176 ss.; Marseglia, Usi negoziali e anatocismo, in Contratti, 2012, 50 ss.


[7] Cass., 26 gennaio 1972, n. 183.


[8] Cass., 5 agosto 1985, n. 4388.


[9] Cass., 4 novembre 2004, n. 21095, in Giur. it., 2005, 66 ss., con nota di Cottino, Sull’anatocismo intervengono anche le Sezioni Unite. Su questa sentenza cfr. anche Lombardi, Anatocismo: le Sezioni Unite non persuadono, in Corr. giur., 2005, 431 ss.


[10] Cass., 28 ottobre 2005, n. 21096.


[11] Cass., 2 dicembre 2010, n. 24418, in Contratti, 2011, 221 ss., con nota di Nanna, Asimmetrie contrattuali e ripetibilità degli interessi anatocistici; in Corr. giur., 2011, 817 ss., con nota di Rolfi, Le Sezioni Unite e l’anatocismo. Non è tutto oro quello che luccica; in Giur. it., 2011, 1547 ss., con nota di Rizzuti, Gli ultimi progressi in tema di anatocismo bancario.


[12] Il medesimo risultato interpretativo è stato raggiunto da parte della giurisprudenza di merito: ad esempio Trib. Busto Arsizio, Sez. distaccata di Gallarate, 18 ottobre 2010, in Corr. giur., 2011, 1706 ss., con nota di Agnino, Anatocismo: tra divieti consolidati e questioni ancora dibattute, ha affermato che, dichiarata nulla la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, al conto corrente bancario non è applicabile in via sostitutiva una diversa modalità di capitalizzazione degli interessi.


[13] In tema di rilevabilità d’ufficio della nullità cfr. Consolo, La Cassazione prosegue nel suo dialogo con l’art. 1421 c.c. e trova la soluzione più proporzionata (la nullità del contratto va sempre rilevata, ma non si forma “ad ogni effetto” il giudicato), in Corr. giur., 2006, 1424 ss.; Mariconda, La Cassazione rilegge l’art. 1421 c.c. e si corregge: è vera svolta?, in Corr. giur., 962 ss.; Pirovano, Rilevabilità d’ufficio della nullità e domanda di risoluzione, in Contratti, 2011, 681 ss.; Prisco, Il rilievo d’ufficio della nullità tra certezza del diritto ed effettività della tutela, in Rass. dir. civ., 2010, 1227 ss.; Senigaglia, Il problema del limite al potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità di protezione, in Eur. dir. priv., 2010, 835 ss.


[14] Cass., 11 novembre 2011, n. 23656. In senso simile aveva deciso anche Cass., 13 ottobre 2005, n. 19882, secondo cui la nullità della clausola anatocistica di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi passivi, inserita nel contratto di conto corrente bancario, da cui deriva il credito azionato in giudizio, è rilevabile d’ufficio dal giudice anche in grado di appello, rimanendo irrilevante, a tal fine, l’assenza di una deduzione (o di una tempestiva deduzione) del profilo d’invalidità a opera dell’interessato, la quale rappresenta una mera difesa, inidonea a condizionare, in senso positivo o negativo, l’esercizio del potere di rilievo d’ufficio della nullità del contratto.


[15] Sulle questioni di prescrizione del diritto alla restituzione degli interessi anatocistici v. Flick, Dies a quo del termine di prescrizione e anatocismo: un nuovo vestito per un vecchio problema, in Danno e resp., 2011, 612 ss.; Maffeis, Banche, clienti, anatocismo e prescrizione, in Banca borsa tit. cred., 2005, II, 141 ss.; Magni, Illegittima corresponsione di interessi nel rapporto di conto corrente, anatocismo bancario e prescrizione dell’azione di ripetizione, in Corr. mer., 2005, 161 ss.; U. Salanitro, L’inizio della decorrenza della prescrizione dell’azione di ripetizione degli interessi anatocistici nel conto corrente bancario: orientamenti giurisprudenziali e soluzioni legislative, in Banca borsa tit. cred., 2011, I, 400 ss.; Troisi, Brevi note in tema di decorrenza del termine di prescrizione del diritto del cliente alla ripetizione degli interessi anatocistici, in Riv. giur. sarda, 2010, II, 221 ss.


[16] L’art. 1422 c.c. ha trovato applicazione giurisprudenziale soprattutto in materia di diritto del lavoro. Ad esempio Cass., 23 giugno 1989, n. 3019, ha stabilito che l’azione volta a far valere la nullità del patto di apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, per essere la relativa clausola priva di forma scritta, è imprescrittibile a norma dell’art. 1422 c.c., restando invece soggetti a prescrizione quinquennale (art. 2948 c.c.) i diritti patrimoniali scaturenti dall’avvenuta instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, con necessaria decorrenza, quanto alla prescrizione del diritto all’indennità di fine rapporto, dalla cessazione del rapporto stesso.


[17] Corte cost., 5 aprile 2012, n. 78, in Contratti, 2012, 445 ss., con nota di D’Amico, Operazioni bancarie in conto corrente e decorrenza della prescrizione.


[18] Cass., 2 dicembre 2010, n. 24418, cit.


[19] Sul contratto di apertura di credito cfr. Teti, Dell’apertura di credito bancario, Milano, 2005. V. inoltre, sotto vari profili, Cavallaro, Rimesse su conto corrente bancario assistito da apertura di credito e revocatoria fallimentare, in Fallimento, 2008, 528 ss.; Falcone, Il conto corrente bancario e l’apertura di credito conclusi in costanza di concordato preventivo, in Dir. fall., 2009, I, 218 ss.; Scarpa, Forma e recesso dal contratto di apertura di credito, in Contratti, 2009, 128 ss.; Sommariva, Sull’applicabilità dell’art. 2558 c.c. ai contratti bancari: in particolare al contratto di conto corrente bancario ed al contratto di apertura di credito, in Giur. comm., 2009, II, 66 ss.


[20] In questo senso Cass., 4 febbraio 2000, n. 1225. Sul contratto di mutuo in generale cfr. AA.VV., Il mutuo e le altre operazioni di finanziamento, a cura di Cuffaro, Bologna, 2005. In particolare sulla caratteristica del mutuo come contratto reale, che si perfeziona con la consegna del danaro, v. Palmieri, Realità del mutuo: tramonto a Lutezia?, in Foro it., 2000, IV, 547 ss.; Polese, Perfezionamento di mutuo e realità, in Contratti, 2005, 149 ss.; Sangiovanni, Brevi note sull’erogazione del danaro nel mutuo, in Corr. giur., 2012, 135 ss.; Visalli, La promessa di mutuo nell’ambito della teoria del contratto reale, in Riv. dir. civ., 2000, I, 63 ss.


[21] Sui più recenti interventi legislativi in materia di prescrizione delle azioni in materia di anatocismo cfr. Bontempi, L’anatocismo bancario alla prova del decreto “mille proroghe”, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 945 ss.; Di Girolamo, Interessi in conto corrente bancario e prescrizione, alla luce del decreto “mille proroghe”, in Nuove leggi civ. comm., 2012, 23 ss.; Dolmetta, Versamenti in conto corrente e prescrizione dell’indebito, in Contratti, 2011, 489 ss.; Greco, Anatocismo bancario e prescrizione: gli effetti processuali del decreto mille proroghe, in Giur. mer., 2011, 2140 ss.; Sesta, L’anatocismo bancario tra interventi legislativi e nuovi dubbi di legittimità costituzionale, in Corr. giur., 2011, 745 ss.; Stilo, Prescrizione e anatocismo nei rapporti bancari: principi giurisprudenziali e riforme legislative, in Contratti, 2011, 629 ss.


[22] Corte cost., 5 aprile 2012, n. 78, cit.

 

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