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I numeri e la riforma della previdenza forense ai box

Partiamo dalla situazione degli iscritti a Cassa Forense:

«Una piramide a base molto larga può rappresentare efficacemente la distribuzione del numero degli iscritti per classi di reddito. Il 58,1% delle posizioni, pari a poco più di 140mila avvocati, non raggiunge la soglia dei 20mila euro e in questa parte sono comprese 32mila posizioni con reddito pari a zero o addirittura negativo o, ancora, le posizioni con reddito non comunicato pervenuto (corrispondono al 13,2% sul totale). Il 27,0% si colloca all’interno della classe compresa fra i 20mila e i 50mila euro, mentre in cima alla piramide (oltre i 50mila euro) si posiziona il 14,8% degli avvocati – poco meno di 36mila posizioni – di cui il 6,5% con redditi superiori ai 100mila euro» (Fonte Censis 2022).

La relazione sull’economia non osservata, anno 2023, elaborata da Il Sole 24Ore certifica che il 67,2% degli autonomi evade.

“Per il triennio 2018 – 2020, per il quale si dispone di un quadro complessivo delle valutazioni, il GAP complessivo risulta di circa 96,3 miliardi di cui 84,4 miliardi di mancate entrate tributarie e 11,9 miliardi di mancate entrate contributive”.

Credo sia in corso di elaborazione in Cassa Forense il Bilancio tecnico al 31.12.2023 che non migliorerà i dati, già negativi, quanto a saldo previdenziale e saldo gestionale, del BT 2020.

La riforma della previdenza forense, dopo tre anni di studi e spese per consulenze e gettoni (le Poltronesofà sono però aumentate), è ai box.

Per evitare conflitti di interesse, che già si sono manifestati nella bozza non approvata, se non in parte, dai Ministeri Vigilanti, la riforma dovrebbe essere affidata ad un commissario ad acta per la sua rielaborazione.

L’opzione al contributivo per anzianità, di cui alla bozza cognita, ne è la riprova; i Delegati vicini alla pensione sono restii al cambiamento delle regole!

Abbassare poi i contributi minimi e, di conseguenza, la pensione minima significa negare previdenza a molte corti di iscritti e rappresenta una opzione del tutto priva di lungimiranza!

Il Cdd ha guardato al breve per catturare consenso, ma in previdenza bisogna essere lungimiranti!

La riforma dovrebbe, quindi, prevedere l’opzione al contributivo per tutti, nel rispetto del pro rata temporis.

«Il sistema retributivo di calcolo delle prestazioni perviene a regime con la Legge 30 aprile 1969, n. 153. Nel modello retributivo la pensione è commisurata alle retribuzioni percepite negli ultimi anni di attività. La sostenibilità finanziaria del sistema dipende, sostanzialmente, dall’equilibrio tra lavoratori attivi e pensionati.

Nel corso degli anni, il costante invecchiamento della popolazione italiana unitamente all’andamento demografico, hanno segnato la crisi del modello retributivo, avviandone il processo di rivisitazione. La Legge 8 agosto 1995, n. 335 di “riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare” (c.d. riforma Dini) introduce il sistema di calcolo contributivo, disponendone la totale applicazione nei confronti di tutti gli assicurati a decorrere dal 1° gennaio 1996.

Il sistema contributivo rappresenta una forma più equa di determinazione della prestazione pensionistica, in quanto pone in diretta correlazione quanto versato con quanto il soggetto verrà a percepire; i contributi accantonati (c.d. montante) vengono, infatti, convertiti in rendita attraverso coefficienti di trasformazione calcolati in ragione dell’età di pensionamento e della conseguente attesa di vita.

La transizione al modello contributivo è stata completata con l’entrata in vigore del Decreto Legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito con modificazioni dalla Legge 22 dicembre 2011, n. 214 (c.d. riforma Fornero). Il sistema contributivo è stato esteso infatti a tutte le anzianità maturate a decorrere dal 1° gennaio 2012, con applicazione del calcolo “pro rata”.» (Ministero del Lavoro e delle politiche sociali).

Com’è noto, la pensione liquidata con il sistema di calcolo contributivo è più sfavorevole, mediamente del 30 – 40%, rispetto a quella liquidata con il criterio di calcolo retributivo.

Per capire quanta differenza c’è tra l’uno e l’altro sistema, prendiamo come esempio un lavoratore che accede alla pensione di vecchiaia che ha più di 40 anni di carriera e un reddito medio annuo di € 30.000.

Con il regime retributivo questo andrà in pensione maturando un assegno pari all’80% del reddito, quindi, € 24.000. Si stima, invece, che laddove la pensione sarebbe stata calcolata interamente con il contributivo, il trattamento previdenziale sarebbe stato pari al 54% del trattamento lordo, quindi circa € 16.200 l’anno. (Fonte: EPAC, Perché il retributivo è più vantaggioso del contributivo).

49% è l’attuale tasso di sostituzione delle pensioni di Cassa Forense per i professionisti che andranno in pensione con 35 anni di contributi, l’anzianità minima prevista dalla Cassa. Per ogni anno ulteriore di contribuzione, il tasso di sostituzione aumenta dell’1,4 (Fonte www.altalex.com Avvocato, che tenore di vita avrai in pensione? Te lo dice il tasso di sostituzione di Marina Piovera del 04.10.2023).

E’ evidente che l’opzione al contributivo in pro rata abbasserà, e non di poco, l’attuale tasso di sostituzione.

Saranno allora indispensabili due interventi strutturali di sostanza e che, a mio giudizio, sono:

– la previsione di aliquote di contribuzione soggettiva progressive, secondo scaglioni di reddito , abolendo del tutto la contribuzione minima;

– la riformulazione dei coefficienti di trasformazione del montante in pensione non solo in base all’età ma anche al genere e secondo fasce di reddito, così da garantire a tutti almeno un importo pari alla pensione minima INPS che dal 01.01.2024 è pari a € 598,61 al mese per € 7.781,93 all’anno (https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/previdenza/Documents/Nota-tecnica-Decreto-direttoriale-01122022-coefficienti-trasformazione-montante-contributivo.pdf)

Servono proiezioni attuariali molto attente e veritiere.

In buona sostanza un cambio di rotta strutturale molto intenso, attraverso la introduzione della progressività per scaglioni di reddito della contribuzione previdenziale e l’abolizione della contribuzione minima.

Quanto alla natura dei contributi previdenziali, la Corte, pur con una giurisprudenza non sempre lineare (frutto del compromesso tra la logica mutualistica e quella solidaristica che, allo stesso tempo, informano il nostro sistema previdenziale), ha affermato che “i contributi non vanno a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori e, peraltro, in proporzione del reddito che si consegue, sicché i lavoratori a redditi più alti concorrono anche alla copertura delle prestazioni a favore delle categorie con redditi più bassi”; allo stesso tempo, però, per quanto i contributi trascendano gli interessi dei singoli che li versano, “essi danno sempre vita al diritto del lavoratore di conseguire corrispondenti prestazioni previdenziali”, ciò da cui discende che il legislatore non può prescindere dal principio di proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali (sentenza n.173/1986; si vedano anche, a tale proposito, le sentenze n. 501/1988 e n. 96/1991) (Fonte: Ministero del Lavoro).

Con la modifica proposta si farebbe un passo in avanti nella equiparazione dei contributi previdenziali alle imposte che qualche avvocato da tempo va auspicando (Salvatore Lucignano in I contributi previdenziali sono tributi, www.avvocaturademocratica.it, 30 maggio 2017; Paolo Rosa, Natura giuridica del contributo previdenziale e Cassa Forense, in Diritto e giustizia, 22.01.2016).

L’autonomia normativa non è illimitata ed infatti:

«L’autonomia normativa degli enti previdenziali categoriali privatizzati di cui al d.lgs. n. 509/94 incontra i limiti imposti, oltre che dalla disposizione di cui all’art., comma 1, d.lgs. n.509/94, anche dalla previgente specifica (art.3, comma 12, l.n.335/95) della tipologia dei provvedimenti che gli enti possono adottare per assicurare equilibri di bilanci e stabilità delle rispettive gestioni.

Si tratta dei provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico, nel rispetto del principio del pro rata.

In linea con la citata normativa, la Suprema Corte di Cassazione con una recente decisione (ordinanza 24.8.2021 n. 23363), ha confermato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale gli enti previdenziali privatizzati ai sensi del d.lgs. n.509/1994 (nella specie Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza dei ragionieri e Periti commerciali) non possono adottare, sia pure in funzione dell’obiettivo di assicurare l’equilibrio di bilancio e la stabilità della gestione, atti o provvedimenti che, lungi dall’incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico, impongano un contributo di solidarietà su un trattamento che sia già determinato in base ai criteri ad esso applicabili, dovendosi ritenere che tali atti siano incompatibili con il rispetto del principio del pro rata e diano luogo a un prelievo inquadrabile nel genus delle prestazioni patrimoniali ex art.23 Cost, la cui imposizione è riservata al legislatore.

Infatti, in ordine agli interventi degli enti previdenziali categoriali sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico, occorre evidenziare che gli enti previdenziali privatizzati non possono adottare, in funzione dell’obiettivo di assicurare equilibri di bilancio e stabilità delle rispettive gestioni, provvedimenti che, lungi dall’incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico, impongano ad esempio, un massimale (tetto) allo stesso trattamento e come tali, risultino incompatibili con il rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto all’introduzione delle modifiche derivanti dagli stessi provvedimenti. E ciò in quanto è escluso qualsiasi provvedimento che, non incide sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico ma solo sullo stesso trattamento già determinato.

La possibilità per gli enti previdenziali categoriali di introdurre un contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici in corso (sempre per esigenze di bilancio) è stata negata (Cass. 14.1.2019 n. 603) anche sul presupposto che i provvedimenti legittimamente adottabili dalle casse private in materia previdenziale rappresentano una sorta di numerus clausus; è stata infatti dichiarata illegittima (e lo conferma la riferita decisione 24.8.2021 n. 23363) l’introduzione di un contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici già determinati (e già oggetto di un provvedimento di liquidazione), perché non riconducibile ad uno dei provvedimenti previsti dall’art. 3, 12° comma, l. n. 335 del 1995, non potendo lo stesso essere ricondotto né tra i provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, né tra i provvedimenti di riparametrazione dei coefficienti di rendimento, né fatto rientrare tra i provvedimenti compatibili con il principio del pro rata.

Ulteriori limiti all’esercizio dell’autonomia normativa consegue alla impossibilità per gli enti previdenziali categoriali privatizzati di modificare in peius il trattamento pensionistico in atto. Infatti, una volta maturato il diritto alla pensione, l’ente previdenziale debitore non può, con atto unilaterale, regolamentare o negoziale, ridurre l’importo, tanto meno adducendo generiche ragioni finanziarie, poiché ciò lederebbe l’affidamento del pensionato, tutelato dall’art. 3, comma 2, Cost., nella consistenza economica del proprio diritto soggettivo». (Leonardo Carbone, 06.90.2021 in CFNews).

 

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