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Nel suo appuntamento precedente queste stesse colonne avevano trattato i temi del Decreto Crescita e del cosiddetto Codice della crisi. Due questioni di cui si dibatte molto all’interno delle sfere dirigenziali del mondo del pallone e dello stesso governo, che in ultima analisi è dopo le istituzioni sportive la controparte massima di queste vertenze.

In seguito a quanto scritto nell’appuntamento precedente Valerio Casagrande, Chief Financial Officer del Parma, ha accettato di parlare con Calcio e Finanza nei fatti dando una vivace conferma di quanto questi temi siano molto considerati importanti all’interno dei singoli club e dell’intero universo calcistico in questa intervista realizzata insieme a Marco Sacchi.

Partendo dall’inizio, cos’è il “Codice della crisi” e perché anche le società di calcio lo stanno sfruttando sul fronte della ristrutturazione dei debiti?

Il Codice della crisi è una cornice normativa introdotta negli anni scorsi allo scopo di identificare situazioni di crisi e di insolvenza che possono colpire le imprese. Le stesse devono adottare assetti organizzativi e una serie di strumenti di monitoraggio per identificare la condizione di crisi. Si tratta nel complesso di strumenti e adempimenti di monitoraggio, e in più sono presenti istituti che permettono alle aziende di uscire da periodi di crisi e ripristinare una situazione di continuità aziendale: uno di questi è la ristrutturazione del debito. Si tratta di un framework normativo sul concetto che ci sia una situazione temporanea di difficoltà aziendale e che su questa situazione si possa intervenire.

Perché ora è anche un tema calcistico? E quali sono i problemi che questo comporta?

Le società di calcio sono incluse in questo perimetro normativo in quanto società di capitali. La premessa è che se una società di calcio adotta gli strumenti del Codice della crisi lo fa in un modo assolutamente legittimo. Il problema nasce dalla specificità del mondo del pallone, che non è colta in questo caso dal legislatore. Innanzitutto, c’è un livello di competizione che non è solo economica, ma soprattutto sportiva, e per definizione questa deve essere equa. L’altro elemento è di carattere economico-finanziario perché le aziende hanno come obiettivo il profitto e la remunerazione del capitale. Nel caso dei club di calcio il disequilibrio è una situazione diffusa, per non dire “ordinaria”, e il capitale non viene remunerato, ma spesso ripristinato. Esiste dunque una sorta di “condizione di crisi” permanente e strutturale.

Quindi nel mondo del calcio invece di essere una situazione eccezionale siamo di fronte a una quasi normalità?

Gli strumenti del Codice della crisi diventano dunque applicabili alla maggioranza delle società, e si trasformano da strumento eccezionale a strumento ordinario, soprattutto in un contesto di elevato indebitamento, fotografato da tutti i report, tra cui il Report Calcio. Una parte fondamentale di questo debito è l’indebitamento tributario, generato principalmente dalle ritenute sugli stipendi dei tesserati, tra cui i calciatori. Tra l’atro parliamo di un indebitamento che si è cristallizzato con la legge di bilancio del 2022, la quale ha consentito alle società di sospendere il versamento delle ritenute IRPEF e di rateizzarlo. Molte delle società di calcio si sono avvalse di questa possibilità, trovandosi con una sorta di “tesoretto” che potrebbe essere stralciato con la ristrutturazione del debito, come hanno fatto per esempio Genoa e Sampdoria.

Cosa determina di fatto l’applicazione del “Codice della crisi” e la ristrutturazione debito?

Determina effetti distorsivi, perché si può ledere l’equa competizione. Può minare la credibilità del settore e premiare comportamenti non virtuosi, dal momento in cui consente di stralciare il debito legato a una parte di spese che nell’ottica del perseguimento della sostenibilità finanziaria – invocata, tra gli altri, dagli organi di governo del calcio nazionale e internazionale – andrebbe contenuta, gli stipendi dei tesserati. Con lo stralcio si premiano comportamenti che non sono virtuosi, in quanto improntati all’overspending.

In che modo dovrebbero intervenire il Governo o la Federazione? Meglio escludere i club calcistici totalmente dalla possibilità di accedere alla norma?

Una soluzione potrebbe essere quella di restringere l’accesso agli strumenti consentiti dal Codice della crisi e in particolare alla ristrutturazione del debito, bisognerebbe trovare una soluzione in tal senso. L’inerzia non è una opzione, perché ci sono interessi che si radicano sia nella sfera sportiva che federale, come l’equa competizione e la credibilità del sistema. Senza credibilità esiste il rischio che gli investitori possano dirottare altrove i propri investimenti. Ma non solo.

Prosegua.

Esiste infatti anche un anello di congiunzione con la sfera ordinaria, che dovrebbe essere interessata ad attrarre investimenti in Italia e nel settore calcistico, dove servono soprattutto risorse da convogliare a livello infrastrutturale. In ultimo, ma non meno importante, c’è il tema dei contribuenti, perché lo stralcio derivante dalle tre operazioni realizzate (Genoa, Sampdoria e Reggina, ndr) ha comportato una riduzione erariale di circa 170 milioni di euro. Questo è un discorso sicuramente vero anche per le altre aziende, ma ci sono due elementi fondamentali distintivi: nel caso delle aziende “normali” la situazione di “crisi” è in principio temporanea e a seguito degli interventi posti in essere l’impresa torna alla redditività, generando, tra l’altro, quelle imposte che giustificano il “sacrificio” erariale originario. Nel calcio invece la situazione è, parlando in termini generali, strutturale, con una natura permanente e lo strumento diventa una sorta di contributo “a fondo perduto”.

Nei fatti si può configurare quasi come fosse una sovvenzione al sistema calcio?

Lo strumento è un latente contributo a favore del sistema calcio, non generalizzato a tutto il mondo del pallone ma a quei soggetti meno virtuosi. Il secondo elemento è che questi strumenti vengono utilizzati per evitare il fallimento di una società, e con il rischio di perdere valore – se un club fallisce i suoi calciatori, asset principale, sono di fatto liberi – l’Agenzia delle Entrate è, pertanto, più incentivata a portare a termine accordi anche vantaggiosi per i club, con stralci significativi. Tutti gli attori si comportano legittimamente, ma si arriva poi a uno stato delle cose caratterizzato da profonda inefficienza e ingiustizia. Per questo il tema va risolto all’origine, intervenendo sull’impianto normativo per renderlo adatto alla specificità del calcio.

Secondo lei quali interventi si potrebbero attuare?

A livello federale a dire il vero è già arrivato un intervento, con il blocco della campagna trasferimenti per i club che si siano avvalsi di tali misure. La Federazione si è mossa in questo senso, ma c’è un problema di proporzionalità. Si tratta sostanzialmente del medesimo provvedimento che viene adottato in caso di sforamento dell’indice di liquidità. La stessa sanzione per una base molto diversa. La ristrutturazione del debito è molto più invasiva e “premiante” rispetto al mancato rispetto dell’indice di liquidità. I due comportamenti non possono essere messi sullo stesso piano, in quanto ad effetti distorsivi.

La Federazione dovrebbe agire in qualche modo?

Da quanto ho inteso, l’intervento della Federazione non può probabilmente essere esteso oltre quello che è stato fatto. Ne prendo atto, anche se è immaginabile che sanzioni sportive più incisive potrebbero scongiurare l’abuso dello strumento. Preso atto del perimetro di azione in ambito normativo federale, è altrettanto vero che qualora la Federazione ritenesse che tutto questo discorso fosse sensato potrebbe svolgere, in assenza di azione “motu proprio” da parte del legislatore ordinario, un’opera di “moral suasion” nei confronti degli organi di Governo affinché modifichino il perimetro della normativa.

E il governo? Dopo lo “spalmadebiti”, sembra un’altra legge allargata per il mondo del calcio. Serve porre un freno a questo tipo di interventi dell’esecutivo oppure un occhio di riguardo serve, considerando anche i mancati contributi durante la pandemia Covid rispetto ad altri settori?

Il calcio è un settore di rilevanza nazionale, non solo per le emozioni che suscita, ma anche per il volume d’affari che muove e per il significativo gettito fiscale che genera. La pandemia ha avuto un impatto negativo molto significativo sui club. Sulla base di questi presupposti, la richiesta di contributi non mi sembrava irragionevole. Compensare, però, l’assenza di tali contributi con altre soluzioni, peraltro non universali, mi sembra inappropriato e inefficace rispetto agli obiettivi generali del sistema. Se ritenuto meritevole, il contributo deve essere riconosciuto secondo criteri trasparenti, chiari e universali, altrimenti si rischia di creare effetti distorsivi.    

Parlando di azioni volte a supportare le società di calcio, personalmente sarei dell’opinione che si debba aprire una discussione in merito alle entrate derivanti dal settore del betting. Al fine di elevare “la dignità” di tali entrate, si potrebbe vincolarne la destinazione agli investimenti nel settore giovanile. Due risultati con un’unica soluzione.

Sinora tre club, ovverosia Genoa, Reggina e Sampdoria, hanno già usufruito dello strumento della ristrutturazione del debito: potranno essere di più nei prossimi mesi?

Non saprei dirlo onestamente. Ho notato che sono in programmazione alcuni convegni sul tema (ed altri si sono già tenuti) portando come “case history” le situazioni già avvenute. Se c’è un’offerta di questo tipo è facile ipotizzare che ci sia anche una domanda, mi viene da dedurre questo. Si possono andare a indagare i bilanci e capire quali siano le società con i debiti tributari più elevati e sulla base di questi dati fare ipotesi su chi potrebbe avere interesse ad accedere a uno strumento di questo tipo. Stante l’attuale quadro normativo, non si può impedire ad altri club di fare ricorso a questa possibilità, ma con una massa debitoria così elevata, l’impatto sui contribuenti rischia di essere ancora più concreto.

Tra le altre norme di questo tipo c’è anche Decreto Crescita: quale dovrebbe essere la strada da seguire? Cancellarlo definitivamente o cambiarlo?

Secondo la mia opinione, la cancellazione definitiva non dovrebbe essere un’opzione. E, un’eventuale rimodulazione non deve essere in alcun modo retrospettica, incidendo sui rapporti già definiti in ragione del quadro esistente. Ciò premesso, constato che come spesso accade ci si divide in fazioni un po’ aprioristicamente. Sotto questo profilo, il decisore politico sportivo potrebbe cogliere una grande opportunità, in primis di metodo: sulla base delle informazioni disponibili elaborare un’analisi che permetta di valutare la misura rispetto agli obiettivi dichiaratamente previsti. Tutti i dati sono disponibili. Sarebbe, dunque, relativamente facile fare un’analisi della misura e dei suoi effetti fino ad ora. Valutare gli interventi di politica economica è fondamentale dal mio punto di vista, per prendere decisioni che abbiano un elemento di oggettività solido. Andrebbe fatta una mappatura dei soggetti che hanno usufruito del Decreto Crescita e comparare i risultati con quelli che erano gli obiettivi.

In quale modo?

L’obiettivo era attrarre i campioni? Allora che età hanno i calciatori che sono stati acquistati sfruttando i benefici fiscali? Quante presenze in Nazionale hanno avuto questi giocatori impatriati? Quanto hanno vinto in carriera? Quanto hanno giocato nei top campionati europei? Questo permette di valutare il raggiungimento delle finalità del Decreto e poi capire se mantenerlo o variarlo. Per quanto mi risulta un’analisi di questo tipo non è stata effettuata. In assenza di tale solida base di valutazione, comprendo, in principio, le argomentazioni sia di coloro che vorrebbero mantenerlo inalterato sia di quelli che chiedono una modifica. Personalmente mi sembra che forse il decreto abbia raggiunto più obiettivi a livello quantitativo, che non qualitativo.

E quindi?

Quindi una rimodulazione a valere sull’instaurazione dei futuri rapporti potrebbe non essere irragionevole, fermo quanto già espresso sui rapporti esistenti. Peraltro, il discorso è più generale e il regime è all’interno di un quadro su cui andrebbe fatta una osservazione più ampia: in questa fase storica del calcio italiano la maggioranza dei capitali viene dall’estero. Sarebbe importante che quei capitali rimanessero in Italia, le squadre sono venditrici e acquirenti allo stesso tempo e osservo che c’è un “arbitraggio” favorevole agli acquisti dall’estero, anche per via del sistema delle fideiussioni della stanza di compensazione, richieste di regola solo in Italia e le quali hanno un costo elevato. Forse per il calcio italiano sarebbe meglio trovare delle soluzioni che non disincentivino a far rimanere questi capitali all’interno del Paese.  

 

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