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L’art. 216 – ultimo comma – della legge fallimentare[1] recita: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, anziché: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.

Il dettato legislativo previsto dal sopracitato articolo è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 222/2018, ove non viene messo in discussione soltanto il quantum delle pene accessorie previste in tema di bancarotta, bensì – tale pronuncia – assume rilevanza anche per ciò che concerne il tema del sindacato di proporzione della pena.

Ma perché la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 216 della legge fallimentare?

  1. Il fatto

Orbene, è essenziale, al fine di comprendere la ratio che porta alla pronuncia dei Giudici della Corte, analizzare il caso Parmalat.

Il caso Parmalat costituisce il più grande scandalo di bancarotta fraudolenta e aggiotaggio scoperto solo nel 2003, nonostante le difficoltà dell’azienda fossero riconducibili ai noti eventi storici degli anni Novanta.

L’ammanco rilasciato dalla Società Collecchio, causato dal falso in bilancio, si aggirava sui 14 miliardi di euro anche se, quando fu contestato per la prima volta il reato, l’ammanco risultava essere di circa 7 miliardi di euro.

Concluse le indagini preliminari, il patron della Parmalat fu condannato a 18 anni di reclusione, in concorso con gli altri collaboratori tra cui dirigenti, revisori dei conti e sindaci[2].

Le soluzioni adottate al crollo finanziario si rinviene nell’azzeramento del patrimonio azionario ai piccoli azionisti, tuttavia ai risparmiatori che avevano investito il proprio patrimonio in bond[3] è stato riconosciuto un risarcimento del danno.

Il decreto “salva imprese” riuscì a salvare la Parmalat dal fallimento, sotto l’amministrazione di Enrico Bondi che ne risanò parzialmente i conti.

  1. La questione di legittimità costituzionale: l’ordinanza del 2017.

La Prima Sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 52613 del 6 luglio 2017[4], ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 216 ultimo comma della l.f. «nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguano obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa».

Da ciò che si legge nell’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione[5], tale articolo contrasterebbe gli artt. 3, 4, 27, 41, e 117 c.1 dell’architrave del sistema legislativo italiano, ovvero la Costituzione[6].

La Cassazione, difatti, osserva nella sua ordinanza, che non sussiste alcuna flessibilità in tema di pene accessorie per il reato di bancarotta fraudolenta, pertanto la pena viene comminata sempre in misura fissa[7],inoltre tale violazione era ascrivibile anche alla ingiustificata incidenza sulla possibilità del condannato di esercitare il suo diritto al lavoro nonché nel suo diritto di iniziativa economica che, potenzialmente, potrebbe svolgersi mediante l’esercizio di qualsivoglia attività di impresa.

Inoltre, l’ultimo comma dell’art. 216 l.f. contrastava, a detta della Prima Sezione della Corte di Cassazione, anche con l’art. 117 Cost., letto in combinato disposto con l’art. 8 CEDU, nella misura in cui la nozione convenzionale di vita privata, ivi tutelata, ricomprendesse anche tutte le attività professionali e commerciali da cui ne derivano diritti e interessi di tipo patrimoniale[8], poste tali ragioni è necessario che ogni limite sia proporzionato all’offesa al bene giuridico e allo scopo perseguito[9].

Non era la prima volta[10] che la Cassazione sollevasse una questione di legittimità in merito alla misura sanzionatoria accessoria di “dieci anni”, ma soltanto con l’ordinanza del 2017 la Corte Costituzionale si rese cono del fumus boni iuris sotteso a tale questione, coordinato alla esigenza di un sistema di pene accessorie che fossero quanto più rispettose della funzione rieducativa della pena sottesa all’art. 27 co. 3 Cost.

  1. La sentenza della Corte Costituzionale del 2019 e le Sezioni Unite della Cassazione post intervento della Corte Costituzionale.

La sentenza n. 28910 del 28 febbraio 2019 delle Sezione Unite della Corte di Cassazione risolve il contrasto giurisprudenziale creatosi dopo la pronuncia della Corte Costituzionale in merito alle pene accessorie applicate nel caso di condanna per bancarotta fraudolenta.

E’ ormai scienza comune che, il giudice nella sentenza, in caso di condanna, debba rifarsi all’art. 133 c.p. e , difatti, la giurisprudenza è concorde nell’affermare che “le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata no fissa devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”, inserendo tale pena in una cornice edittale avente un minimo ed un massimo edittale predeterminato dalla norma.

Sul punto si erano consolidati due orientamenti giurisprudenziali:

il primo[11] affermava che la pena accessoria non doveva ritenersi determinata dalla legge ma doveva essere commisurata nella medesima entità della pena principale inflitta[12].

A contrario, l’altro orientamento, incline a quanto stabilito dalla giurisprudenza di legittimità riteneva che la durata delle pene accessorie dovesse essere equiparata all’art. 37 c.p., ripercorrendo il limite massimo indicato dalla stessa norma incriminatrice[13], al fine di evitare una qualsiasi applicazione analogica in malam partem.

Nella sentenza della Corte costituzionale la durata fissa pari a 10 anni per le pene accessorie si ritiene incompatibile con i principi di proporzionalità[14] e, ritiene pertanto che sia necessario individuare il trattamento sanzionatorio sempre in relazione alla singola condizione dell’imputato – potenziale condannato.

In ossequio a quanto stabilito dai principi costituzionali, riscontrato pertanto tale vulnus costituzionale, la Corte Costituzionale ha sostituito la previsione della durata fissa decennale della pena accessoria con la previsione del limite massimo fino a dieci anni.

Le odierne Sezioni Unite, con la sentenza n. 28910/2019 aderiscono all’orientamento che si era già consolidato mediante l’intervento della Corte costituzionale, ovvero prevedeva la concreta applicazione del principio di proporzionalità della pena in base ai criteri prestabiliti dall’art. 133 c.p.

La pena accessoria, dunque, al pari di quella principale è costituzionalmente giustificata soltanto nelle ipotesi in cui sia rispostato il principio di proporzionalità e pertanto siano esclusi gli automatismi e il calcolo meccanico basato sul mediato aggancio alla misura della pena principale, e che quindi tenga conto della condizione socio economica del condannato[15].

 

[1] R.d. 16 marzo 1942 n. 267

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Crac_Parmalat

[3] L’obbligazione in ambito finanziario è un titolo di debito, emesso da società o enti pubblici, che attribuisce al suo possessore, alla scadenza, il diritto al rimborso del capitale prestato all’emittente più un interesse su tale somma. L’obbligazione è per il detentore una forma di investimento, sotto forma di strumento finanziario; per l’emittente il prestito obbligazionario ha il fine del reperimento di liquidità. Un esempio di obbligazione è costituito dai titoli di Stato

[4] Ordinanza depositata il 17 novembre 2017.

[5] Rispettivamente: Corte d’Appello di Trieste, ord. 20 gennaio 2011; Cassazione penale, ord. 21 aprile 2011.

[6] C. Cost., sent. 21 maggio 2012, n. 134, in questa Rivista, 1 giugno 2012, con nota di L. Varrone, Sui limiti del sindacato di costituzionalità delle previsioni sanzionatorie, in un caso concernente le pene accessorie interdittive per il reato di bancarotta fraudolenta e in Guida al diritto, con nota di V. Manes, Nei casi di condanna per bancarotta fraudolenta resta l’inabilitazione «fissa» dall’esercizio dell’impresa, 27, 2012, 62 ss.

[7] A tal proposito è giusto rimembrare la sentenza n. 50 del 1980 della Corte Costituzionale ove veniva sancito il principio della mobilità della pena, ovvero la pena doveva essere predeterminata all’interno di una cornice edittale, rispettando così i principi sanciti dagli artt. 3 e 27 co. 1 e 3 Cost. A tal proposito, assume la Corte, è necessario adottare una adeguata differenziazione di trattamento tra le fattispecie concrete aventi diversa gravità al fine di rendere quanto più personale la responsabilità penale del singolo e al fine di ricavarne anche la funzione rieducativa della pena.

[8] Tali principi, giova ricordarlo, devono essere garantiti a norma dell’art. 1 Prot. 1 CEDU.

[9] GALLUCCIO, PENE ACCESSORIE ‘FISSE’ PER LA BANCAROTTA FRAUDOLENTA: LA CASSAZIONE SOLLEVA UNA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE, diritto penale contemporaneo, 11 gennaio 2018

[10] I giudici a quibus chiedevano, questa volta, un diverso intervento sul testo dell’art. 216 l.f. – l’eliminazione, tout court, della locuzione «per la durata di dieci anni» – per ottenere, però, l’identico effetto perseguito dalle ordinanze di rimessione che originarono la sentenza del 2012: l’applicazione alle pene accessorie della bancarotta fraudolenta della regola generale di cui all’art. 37 c.p., con conseguente allineamento della durata della pena accessoria a quella della pena principale.

[11] Cass. pen., Sez. un., sent. 27 novembre 2014 (dep. 12 febbraio 2015), n. 6240, Pres. Santacroce, Rel. Amoresano, ric. Basile, in questa Rivista con nota di I. Manca, Le Sezioni unite ammettono l’intervento in executivis sulla pena accessoria extra o contra legem, purché determinata per legge nella specie e nella durata, 8 marzo 2015.

[12] In tal senso art. 37 c.p.: “quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato”

[13] Sul punto vengono richiamate, tra l’altro: Cass. pen., sez. V, 05 febbraio 2015, n. 15638, Assello; Cass. pen., sez. V, 16 febbraio 2012, n. 23606, Ciampini; Cass. pen., sez. V, 02 marzo 2010, n. 13579, Ografo; Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 2010, n. 17690, Cassa di Risparmio di Rieti S.p.a.; Cass. pen., sez. V, 15 marzo 2000, n. 4727, Albini.

[14] Pertanto in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.

[15] Cass., Sez. un. pen., 29 maggio 2014 (dep. 14 ottobre 2014) n. 42858, Pres. Santacroce, Rel. Ippolito, Gatto, in questa Rivista con nota di G. Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”, 17 ottobre 2014, e di S. Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, 22 dicembre 2014.

 

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