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Provvedimenti cautelari del giudice ordinario e giudizio di ottemperanza (in materia di pubblico impiego privatizzato)

(nota a Cons. Stato, Sez. VI, 17 febbraio 2021, n. 1463).

 di Giuseppina Mari

Sommario: 1. Premessa e fattispecie oggetto della sentenza. – 2. I provvedimenti equiparati alle sentenze passate in giudicato del g.o. nell’art. 112, comma 2, lett. b), c.p.a. – 3. La strumentalità attenuata dei provvedimenti anticipatori nelle controversie di lavoro. – 4. Le modalità di attuazione a disposizione del g.o. nel procedimento ex art. 669-duodecies c.p.c. – 5. Considerazioni conclusive.

1. Premessa e fattispecie oggetto della sentenza

Il Consiglio di Stato, nella sentenza della Sezione VI n. 1463 del 2021, ha dichiarato inammissibile il ricorso per ottemperanza proposto per l’esecuzione di un’ordinanza cautelare resa dal giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro ex art. 700 c.p.c.. Ai sensi dell’art. 112, co. 2, lett. c), c.p.a. l’azione di ottemperanza con riguardo ai provvedimenti del g.o. è proponibile, infatti, solo per le sentenze passate in giudicato e per gli altri provvedimenti ad esse equiparati; in quest’ultima categoria il Consiglio di Stato non ha ritenuto inquadrabile il provvedimento ex art. 700 c.p.c., trattandosi di decisione interinale, ontologicamente inidonea ad incidere con efficacia di giudicato su posizioni giuridiche di natura sostanziale. La sentenza fornisce occasione per una riflessione sui provvedimenti attuabili in sede di ottemperanza, sul persistente limite del giudicato quando venga in rilievo una pronuncia del giudice ordinario e sulla utilità, o meno, in termini di effettività della tutela giurisdizionale, dell’attuazione nelle forme previste dall’art. 669-duodecies c.p.c..

Nel caso deciso un dirigente del Mibac si era rivolto al giudice civile affinché venisse accertato il suo diritto a permanere in servizio fino al raggiungimento di una determinata età contributiva. Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, aveva accolto in sede cautelare la domanda ex art. 700 c.p.c., con ordinanza poi confermata dal Tribunale in formazione collegiale. 

Veniva quindi proposto dinanzi al giudice amministrativo ricorso per ottemperanza, in ragione della mancata esecuzione del provvedimento e della sua elusione integrata dall’adozione di un decreto direttoriale di risoluzione del rapporto di lavoro ripropositivo dei medesimi vizi censurati dal giudice civile.

In primo grado il TAR Lazio[1] dichiarava inammissibile il ricorso, essendo l’ordinanza cautelare ex art. 700 c.p.c. priva, in quanto tale, dell’attitudine al consolidamento nelle forme del giudicato. Confortato da giurisprudenza costante[2], il TAR rilevava come tale considerazione restasse valida pur dopo la riforma del rito cautelare che ha “infievolito la strumentalità del provvedimento d’urgenza rispetto alla fase del merito (divenuta eventuale), ma non ha inciso sul carattere intrinsecamente provvisorio di esso (cd. strumentalità attenuata), posto che le parti possono comunque avviare il giudizio di merito per un’ulteriore definizione giudiziale della controversia”.

La contestazione della sentenza in appello si è basata su due principali argomenti: la equiparabilità dell’ordinanza alle sentenze passate in giudicato del giudice ordinario, in quanto caratterizzata dall’attitudine alla stabilità del comando giudiziale con la stessa impartito; il carattere necessitato dell’azione di ottemperanza (per la cognitio plena estesa al merito del giudice amministrativo) – e l’inidoneità del rimedio di cui all’art. 669-duodecies c.p.c. –, interferendo nella specie la tutela effettiva della posizione di lavoro con valutazioni di interesse pubblico discrezionali della p.A. datrice di lavoro. Ad integrazione di tali argomenti, è stata dedotta l’asserita contraddizione – in violazione degli artt. 3 e 113 Cost. – tra la competenza del giudice dell’ottemperanza sull’esecuzione dei provvedimenti meramente esecutivi del g.a. (ivi incluse le misure cautelari, ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. b, c.p.a.) e l’impossibilità di conoscere dell’inottemperanza di corrispondenti decisioni del g.o. assunte nei confronti della p.A..

Entrambi gli argomenti sono stati respinti, basandosi l’appello– a giudizio del Consiglio di Stato –, da un lato, su un’erronea interpretazione del dato normativo in ordine alla definitività dell’ordinanza in parola e, dall’altro, su un equivoco in merito ai poteri del g.o. adito per l’attuazione delle misure cautelari ex art. 669-duodecies c.p.c..

 

2. I provvedimenti equiparati alle sentenze passate in giudicato del g.o. nell’art. 112, comma 2, lett. b), c.p.a.

 Sotto il primo dei profili indicati (asserita equiparabilità al giudicato), il Consiglio di Stato ha rilevato la non coincidenza tra giudicato e tendenziale intangibilità della misura cautelare.

La riforma del rito cautelare (operata dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35 convertito con modificazioni in l. 14 maggio 2005 n. 80), con un chiaro intento deflattivo delle cause ordinarie, ha come noto affievolito la strumentalità del provvedimento d’urgenza – e degli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito – rispetto alla tutela di merito, diventata eventuale con la soppressione della regola dell’obbligatoria introduzione del giudizio di merito. 

Nonostante ciò, la riforma non ha reso il provvedimento idoneo al giudicato in senso sostanziale ex art. 2909 c.c..

Stabilito che ai provvedimenti di urgenza emessi a norma dell’art. 700 c.p.c. non si applicano le disposizioni dell’art. 669-novies, comma 1, c.p.c. – sulla perdita di efficacia del provvedimento cautelare per il mancato inizio tempestivo del procedimento di merito (entro il termine perentorio assegnato dal giudice o comunque entro il termine previsto dall’art. 669-octies, comma 2 c.p.c.) o per l’estinzione di quello eventualmente avviato –, l’avvenuta attenuazione della strumentalità non ha inciso sul carattere intrinsecamente provvisorio, potendo ciascuna delle parti della procedura cautelare scegliere comunque di avviare il giudizio di merito[3] (art. 669-octies, comma 6, c.p.a.).

Gli effetti del provvedimento ex art. 700 c.p.c. rimangono dunque provvisori[4] in quanto eliminabili o riformabili all’esito del giudizio a cognizione piena – avviabile da ciascuna parte – che dichiari inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento venne emesso.

Come evidenziato dalla giurisprudenza[5], “il provvedimento ai sensi dell’art. 700 c.p.c. non è “stabile”, tanto che il permanere della sua efficacia può venir meno per effetto di altra sentenza, anche essa instabile, perché impugnabile o impugnata”, con la conseguenza che “deve logicamente negarsi che esso possa divenire giudicato, finché l’accertamento a base della sua emissione non risulti confermato da una sentenza di merito divenuta non più impugnabile”. 

La riforma, pertanto, ha conferito stabilità all’efficacia esecutiva, ma non all’accertamento su cui il provvedimento si basa, potendo venire meno in conseguenza di altra pronuncia “che in tanto può incidere su di esso senza costituire giudicato in quanto il provvedimento urgente è solo apparentemente definitivo[6]. Coerentemente, l’art. 669-octies, u.c., c.p.c. dispone che “l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo”. 

Permane, dunque, quella provvisorietà carattere essenziale delle misure cautelari e che ne denota l’inidoneità a dettare una disciplina definitiva del diritto controverso. Con l’ulteriore conseguenza che, in mancanza dell’instaurazione della causa di merito, il risultato determinato dall’attuazione del provvedimento cautelare si consolida in modo definitivo solo tramite i meccanismi di stabilizzazione del diritto sostanziale (come, ad esempio, la prescrizione). Tali considerazioni spiegano perché la Cassazione[7] abbia ripetutamente giudicato non proponibile contro i provvedimenti urgenti ex art. 700 c.p.c. il ricorso straordinario per cassazione.

Quanto descritto si inserisce senza forzature in un sistema in cui la Costituzione garantisce che la tutela giurisdizionale dei diritti possa avvenire in un processo a cognizione piena che si concluda con un provvedimento avente attitudine al giudicato formale e sostanziale, senza però che tale garanzia implichi la necessità che ogni giudizio miri alla formazione del giudicato; il legislatore può prevedere, nella sua discrezionalità, che determinati diritti possano essere fatti valere, oltre che in processi a cognizione piena, anche in processi sommari sfocianti in provvedimenti non idonei a dettare una disciplina incontestabile del rapporto controverso: la garanzia costituzionale del giusto processo impone, in tale caso, di prevedere la possibilità di instaurare il giudizio a cognizione piena[8].

Con riguardo al secondo carattere essenziale tradizionalmente riconosciuto alle misure cautelari (la strumentalità), venuta meno la strumentalità strutturale – quale nesso indissolubile con il giudizio di merito a pena di inefficacia –, permane la strumentalità funzionale – che sta a significare che il tenore della misura continua a commisurarsi, in chiave anticipatoria, a quello di un ipotetico provvedimento definitivo (di cui scongiura la tardività) e a ritagliarsi, quindi, sulla funzione che la pronuncia di merito è chiamata ad esprimere[9]. L’art. 700 c.p.c. dispone, infatti, nel testo persistente alla riforma, che il contenuto atipico ed elastico dei provvedimenti di urgenza è funzionale a renderli, nel caso concreto, “idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”.

Corollario di tali considerazioni è la riserva al giudice cautelare della fase esecutiva, ai sensi dell’art. 669-duodecies c.p.c., nel caso in cui il provvedimento cautelare non sia ottemperato dalla parte soccombente. La disposizione, nel prevedere che “l’attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti”, prevede un procedimento tipico che va promosso ai danni del soccombente. Ciò vale anche quando quest’ultimo sia una p.A..

I descritti caratteri differenziano le misure in parola rispetto ad altri provvedimenti del g.o. diversi dalle sentenze, per la cui esecuzione è pacificamente giudicata proponibile l’azione di ottemperanza ex art. 112, comma 2, lett. c), c.p.a.. 

Il testo della lett. c) dell’art. 112, comma 2, c.p.a., nel fare riferimento ai provvedimenti “equiparati” al giudicato, usa una formula aperta, sul cui riempimento molto si deve alla giurisprudenza che ne ha chiarito i presupposti applicativi. 

È stata giudicata inquadrabile in tale formula, ad esempio, l’ordinanza che conclude il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c.[10] e che, ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c., se rimasta inoppugnata, “produce gli effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile[11] acquisendo una stabilità pari a quella del provvedimento conclusivo del rito ordinario. Il riferimento testuale all’art. 2909 c.c. evidenzia la destinazione funzionale dell’ordinanza all’accertamento di un rapporto – a prescindere dalla tesi cui si aderisca del rito a cognizione sommaria[12] o del rito semplificato a cognizione piena[13] in cui la sommarietà incide sulle modalità istruttorie[14] –, rendendo equiparabile la stessa alle sentenze passate in giudicato. 

Ulteriori provvedimenti del g.o. cui pacificamente è riferita l’anzidetta equiparazione sono il decreto ingiuntivo non opposto o per il quale l’opposizione sia stata respinta e l’ordinanza di assegnazione del credito emessa dal giudice dell’esecuzione nel procedimento di esecuzione forzata.

Quanto al decreto ingiuntivo, esso, al pari della sentenza passata in giudicato, definisce la controversia in quanto, ove esecutivo, è impugnabile solo per revocazione o per opposizione di terzo nei limitati casi di cui all’art. 656 c.p.c., così acquistando valore di cosa giudicata. 

Con riguardo all’ordinanza di assegnazione di un credito pronunciata ex art. 553 c.p.c. dal giudice ordinario nell’ambito di un processo di espropriazione presso terzi e in cui la p.A. ha la veste del terzo debitore del debitore, l’Adunanza plenaria nel 2012[15] ha concluso per la relativa attuabilità mediante giudizio di ottemperanza sulla base dell’analisi del tipo di provvedimento azionato e del tipo di procedimento di cui esso costituisce esito, giudicando sussistenti sia il carattere decisorio (dell’esistenza e ammontare del credito e della sua spettanza al creditore esecutante[16]) sia l’attitudine a passare in giudicato una volta divenuta l’ordinanza definitiva per decorso dei termini di impugnazione.

Diversamente, l’esperibilità dell’azione di ottemperanza è stata esclusa dalla giurisprudenza con riguardo all’ordinanza anticipatoria di condanna per somme non contestate ex art. 186-bis c.p.c.. Il Consiglio di Stato[17] ha rilevato al riguardo come l’ordinanza, in caso di estinzione del giudizio, benché dotata di stabilità nei suoi effetti esecutivi, non sia equiparabile ad un accertamento definitivo in merito all’obbligazione; poiché l’estinzione del processo non estingue l’azione (art. 310 c.p.c.), un nuovo procedimento di merito tra le parti potrebbe condurre alla revoca dell’ordinanza ai sensi dell’art. 177 c.p.c.[18].

3. La strumentalità attenuata dei provvedimenti anticipatori nelle controversie di lavoro

 Alla prima condivisibile considerazione di carattere generale, il Consiglio di Stato ne aggiunge una ulteriore e specifica ai provvedimenti cautelari nelle controversie di lavoro, compresi quelli anticipatori ex art. 700 c.p.c.: “detti provvedimenti, quando resi nella cause di lavoro, ritornano per il chiaro disposto dell’art. 669 IV co. c.p.c., alla regola generale (della strumentalità) emergendo piuttosto l’inapplicabilità di tal semplificazione (strumentalità attenuata) ai provvedimenti cautelari (anche a quelli anticipatori ex art. 700 c.p.c.) nelle controversie di lavoro”; per essi vigerebbe, dunque, un regime di strumentalità piena. 

Tale ultima affermazione consegue all’adesione, da parte del Consiglio di Stato, all’orientamento interpretativo della Cassazione[19] secondo cui il ricorso d’urgenza ante causam ex art. 700 c.p.c. non sarebbe idoneo ad impedire la decadenza dall’impugnazione stragiudiziale del licenziamento (o degli altri atti datoriali di cui all’art. 32, commi 3 e 4, l. n. 183 del 2010) ai sensi dell’art. 6, comma 2, l. n. 604/1966, a tale fine valendo solo il deposito del ricorso di cui all’art. 414 c.p.c. nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o la comunicazione alla controparte della  richiesta di  tentativo  di conciliazione o arbitrato[20]

È utile riportare quanto affermato dalla Cassazione nel 2018[21] in merito alla predetta inidoneità: “l’assenza, nel sistema della strumentalità attenuata di cui all’art. 669-octies, comma 6, c.p.c., di un termine entro il quale instaurare il giudizio di merito all’esito del procedimento cautelare vanificherebbe l’obiettivo della disciplina introdotta dalla l. n. 183 del 2010 di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento”. L’intento perseguito dal legislatore nel 2010 è quello di evitare che un possibile contenzioso attivabile dal lavoratore possa restare latente per tutto il tempo di prescrizione dell’azione di annullamento o per un tempo lungo e indefinito in caso di azione di nullità. Stante la finalità acceleratoria dei tempi di emersione del contenzioso, la Cassazione ritiene non compatibile con l’obiettivo della l. n. 183 del 2010 l’incertezza sui tempi di instaurazione del giudizio di merito.

Tale argomento è però venuto meno in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 212 del 14 ottobre 2020[22] che, a pochi giorni dalla camera di consiglio della sentenza in commento,  ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 6 l. n. 604 del 1966, come modificato dalla l. n. 183 del 2010, nella parte in cui non prevede tra le iniziative idonee ad impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale anche il deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c.[23].

La Corte costituzionale ha giudicato fondato, e assorbente, il contrasto con l’art. 3 Cost. in ragione del non giustificato diverso trattamento della richiesta di attivazione del tentativo di conciliazione o di arbitrato: se la procedura conciliativa si conclude positivamente con un accordo delle parti, questo, quantunque versato nel relativo verbale reso esecutivo dal giudice, non costituisce infatti cosa giudicata formale (art. 324 c.p.c.) né sostanziale (art. 2909 c.c.); analogamente, l’art. 412-quater c.p.c. prevede che il lodo, emanato a conclusione dell’arbitrato irrituale, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113, comma 4, c.c., è impugnabile ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c., e contiene un accertamento di tipo negoziale. Pertanto, la mancata previsione anche del ricorso per provvedimento d’urgenza ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c.., quale atto idoneo a impedire, se proposto nel termine di decadenza, l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale e a dare accesso alla tutela giurisdizionale, è contraria al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.)…”. 

La Consulta ha ravvisato inoltre la violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della ragionevolezza in riferimento alla finalità sottesa alla previsione del termine di decadenza, stante l’idoneità della domanda di tutela cautelare “a far emergere il contenzioso insito nell’impugnazione dell’atto datoriale”. 

Ed è a tale ultimo proposito che la Corte svolge alcune interessanti considerazioni collegate a quanto poc’anzi rilevato sulla natura delle misure ex art. 700 c.p.c. e che confortano il ragionamento del Consiglio di Stato in punto di non equiparabilità al giudicato. 

Ricordato che la tutela cautelare è strumentale all’effettività della tutela giurisdizionale[24], collegandosi al principio per il quale “la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione[25], viene rilevato che con la più volte citata riforma del 2005 il legislatore ha accentuato la natura autonoma della tutela cautelare rispetto a quella di merito, “rendendo soltanto funzionale, almeno per i provvedimenti cautelari anticipatori e per quelli di urgenza exart. 700 cod. proc. civ., il relativo nesso di strumentalità, stante l’idoneità di detti provvedimenti a restare efficaci indipendentemente dall’instaurazione del giudizio di merito, divenuta per gli stessi solo eventuale”. In sostanza, i provvedimenti cautelari “a strumentalità attenuata” sono caratterizzati da una sorta di “definitività condizionata in modo risolutivo” ad una differente decisione assunta nel giudizio di merito che una delle parti eventualmente decida di incardinare in quanto insoddisfatta dell’assetto di interessi provvisorio “potenzialmente stabile” recato dal provvedimento cautelare o intenzionata ad “ottenere una pronuncia sul merito del diritto controverso, idonea al giudicato sostanziale”.

La Corte costituzionale ha quindi osservato come nel 2005 sia stato introdotto un nuovo modello di tutela che può esitare in un provvedimento celere, fondato sul periculum in mora, “a cognizione sommaria e a seguito di un procedimento deformalizzato, che si iscrive nell’ambito di una più ampia tendenza normativa, espressa anche mediante riti di natura diversa (semplificati, sommari, camerali), a svincolare la decisione concreta della lite dalla necessità dell’accertamento con il “crisma” del giudicato sostanziale”.

Il regime della strumentalità attenuata non si pone peraltro in contrasto con l’obiettivo dell’emersione celere del contenzioso (per l’incertezza sui tempi di instaurazione del giudizio di merito), dal momento che, definita la vicenda cautelare, nulla impedisce che l’iniziativa per far venir meno ogni incertezza sul rapporto giuridico sostanziale tramite il giudizio di merito possa essere assunta dal datore di lavoro.

In definitiva, l’intervenuta pronuncia della Consulta se, da un lato, fa cadere il secondo argomento utilizzato dal Consiglio di Stato, dall’altro lato fornisce autorevole e definitivo sostegno, nella descrizione dell’efficacia alquanto peculiare del provvedimento d’urgenza, al primo degli argomenti utilizzati a sostegno dell’inammissibilità del giudizio di ottemperanza, vale a dire la non equiparabilità ad una sentenza passata in giudicato.

 

4. Le modalità di attuazione a disposizione del g.o. nel procedimento ex art. 669-duodecies c.p.c. 

 La non esperibilità del giudizio di ottemperanza per conseguire l’adempimento da parte della p.A. dell’ordinanza ex art. 700 c.p.c., una volta esclusa l’equiparabilità alla sentenza passata in giudicato, costituisce pertanto esito necessitato a normativa vigente. L’esigenza della stabilità del giudicato per l’esecuzione dei provvedimenti del g.o. tramite il giudizio di ottemperanza è prevista espressamente dall’art. 112, comma 2, lett. c), c.p.a. che, in tale parte, ha confermato quanto già in precedenza previsto dall’art. 37 l. n. 1034 del 1971. 

La questione di legittimità costituzionale – sollevata in relazione agli artt. 3, 24, 111 e 113 Cost. – del previgente art. 37 l. TAR nella parte in cui, pur dopo le modifiche recate dalla l. n. 205/2000 sulle sentenze esecutive del g.a., non consentiva per le sentenze ordinarie solo esecutive l’utilizzo del giudizio di ottemperanza, è stata più di una volta affrontata e dichiarata infondata dalla Corte costituzionale[26]. A giudizio della Consulta, il testo modificato nel 2000 dell’art. 33 l. TAR, nella parte in cui aveva esteso l’ottemperanza alle sole sentenze amministrative esecutive, è espressione di una scelta discrezionale del legislatore, “il quale ha voluto dare concretezza al principio di esecutività delle sentenze [del giudice amministrativo] di primo grado, evitando che l’amministrazione possa arbitrariamente sottrarsi alle pronunce giurisdizionali”, non essendo previsti per le sentenze amministrative esecutive, non costituenti titolo esecutivo, strumenti diversi di esecuzione coattiva; diversamente, l’esecuzione delle sentenze ordinarie meramente esecutive è garantita dagli strumenti previsti dal c.p.c., per cui l’estensione ad esse del giudizio di ottemperanza non costituirebbe soluzione costituzionalmente necessitata.

A questi argomenti la Corte ha aggiunto l’ulteriore considerazione per cui le azioni esecutive esperibili dinanzi al g.o. secondo le norme di procedura civile e dinanzi al g.a. non sarebbero comparabili, poichè le sentenze o i provvedimenti esecutivi del g.o. non richiedono “l’esame di merito proprio del giudizio di ottemperanza[27]. Conseguentemente: non sussisterebbe una disparità di trattamento tra l’ipotesi di esecuzione di sentenza amministrativa meramente esecutiva attraverso il giudizio di ottemperanza e l’ipotesi di esecuzione delle sentenze di primo grado del g.o. tramite gli strumenti del c.p.c.; e, stante la diversità degli istituti, in relazione all’esecuzione delle sentenze del g.o. non si porrebbe né una questione di pregiudizio per la tutela dei diritti, né di pregiudizio per la ragionevole durata del processo, comunque garantita dai tempi processuali disposti dal c.p.c..

Nel giudizio di ottemperanza, come noto, l’utilità concreta (in termini di effettività della tutela giurisdizionale) della risposta giurisdizionale è stata progressivamente garantita con il riconoscimento al giudice dell’ottemperanza del potere di individuare gli strumenti più idonei per l’attuazione del giudicato, in ciò anche declinandosi i poteri di giurisdizione “anche in merito[28]. La prospettiva della compiuta attuazione del decisum è tale che il vincolo che deriva al giudice dalla domanda di parte attiene solo al risultato, non al quomodo per raggiungerlo, tant’è che, in presenza di una domanda di ottemperanza fondata, il giudice può adottare tutte le misure atte a garantire che l’ottemperanza avvenga effettivamente e in tempi rapidi, esercitando poteri sostitutivi, in via diretta o indiretta, ordinatori e cassatori, eventualmente cumulabili in presenza dei necessari presupposti, la cui scelta – ad eccezione dell’astreinte per la quale resta necessaria la domanda di parte – è affidata allo stesso giudice[29]. L’ampiezza dei poteri del giudice sul quomodo trova conferma nell’art. 114, comma 4, lett. a), c.p.a. che, coerentemente con la portata della giurisdizione di merito, dispone che, in caso di accoglimento del ricorso per ottemperanza, il giudice ordina l’ottemperanza “prescrivendo le relative modalità”. Il potere del giudice dell’ottemperanza di individuare gli strumenti più idonei per l’esecuzione del giudicato spiega l’utilità dell’intervento sostitutivo del g.a. anche per l’ottemperanza alle sentenze del g.o., dove il giudicato di regola definisce la fattispecie determinando l’assetto del rapporto in relazione alla relativa prefigurazione legale. L’obbligo della p.A. di conformarsi al giudicato dell’autorità giudiziaria ordinaria può richiedere, infatti, determinazioni o operazioni riservate all’Amministrazione, alle quali il g.o. non può sostituire la propria volontà e la propria attività. Anche le sentenze di contenuto più semplice, come quelle di condanna al pagamento di una somma di denaro, possono rendere necessaria una serie di atti e di adempimenti, determinando un intervento del giudice nella procedimentalizzazione dell’erogazione della spesa, allo scopo di dare concreto soddisfacimento al diritto di credito.

Data l’indicata ampiezza dei poteri decisori del giudice dell’ottemperanza, il presupposto del giudicato per le pronunce del g.o. affinché di tali poteri si possa usufruire – sebbene dichiarato più volte conforme a Costituzione – potrebbe essere ripensato dal legislatore in ragione delle maggiori utilità che, in termini di effettività (utilità) della tutela, il giudizio di ottemperanza può presentare rispetto all’esecuzione civile. A bilanciare tali maggiori utilità, si pone di contro la – non eliminabile – impossibilità di integrare o arricchire il giudicato nella soluzione di questioni funzionali all’attuazione ma la cui cognizione sia devoluta a giudice diverso da quello amministrativo, in ragione del limite esterno della giurisdizione[30].

Resta da vedere, peraltro, se nel caso specifico esaminato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento il giudizio di ottemperanza avrebbe potuto presentare effettivamente maggiori utilità rispetto all’esecuzione tramite gli strumenti consentiti dal c.p.c. nelle forme di cui all’art. 669-duodecies c.p.c.

A giudizio del ricorrente, la tutela effettiva della propria posizione di lavoro interferisce con valutazioni di interesse pubblico discrezionali della p.A. datrice di lavoro (nel caso di specie, l’invocata preposizione ad un ufficio dirigenziale generale); il che comporta che la vicenda possa essere apprezzata e definita solo con la cognizione piena estesa al merito del giudice dell’ottemperanza. 

Il Consiglio di Stato ha respinto l’argomento richiamando la giurisprudenza della Cassazione in tema di conferimento di incarichi dirigenziali e di natura della situazione giuridica soggettiva connessa: nel pubblico impiego privatizzato il conferimento di incarichi dirigenziali ha natura di determinazione negoziale assunta dalla p.A. con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (art. 5 d.lgs. n. 165 del 2001); tali determinazioni devono conformarsi alle clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.), che impongono alla p.A. di effettuare valutazioni comparative, di adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e di esternare le ragioni giustificatrici delle scelte[31]. Da ciò consegue che, in caso di mancato conferimento di un incarico dirigenziale, il dirigente pubblico può far valere il suo interesse legittimo di diritto privato[32], connesso ai predetti obblighi datoriali[33], relativamente all’atto di incarico (che è atto di micro-organizzazione). Se tanto vale per incarichi dirigenziali generali, a fortiori il trattenimento in servizio del ricorrente non impinge su scelte discrezionali e costituisce un prius rispetto all’affidamento allo stesso ricorrente di incarichi dirigenziali.

L’esecuzione ai sensi dell’art. 669-duodecies c.p.c. da parte del giudice della cautela (titolare, peraltro, anche del potere di disapplicare eventuali atti amministrativi illegittimi che dovessero porsi in contrasto con quanto deciso, exart. 4 l. n. 2248 del 1865 all. E[34]), pertanto, non incontra preclusioni tali da far emergere una irragionevole contraddizione (in violazione degli artt. 3 e 113 Cost.) tra la competenza del giudice dell’ottemperanza a conoscere delle misure cautelari del g.a. ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. b) c.p.a. e l’impossibilità di conoscere dell’esecuzione di analoghe misure adottate dal g.o..

Il ragionamento svolto dal Consiglio di Stato è condivisibile, purché, a parere di chi scrive, venga integrato con alcune precisazioni – probabilmente sottintese nel ragionamento del g.a. – in merito all’ampiezza dei poteri del g.o. adito per l’esecuzione ai sensi del più volte citato art. 669-duodecies c.p.c.

A seguito della privatizzazione del pubblico impiego e della devoluzione al g.o. della giurisdizione in materia, i profili dell’esecuzione del giudicato e delle misure cautelari non sono stati disciplinati espressamente. L’art. 63 d.lgs. n. 165 del 2001, nel disporre che “il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”, si occupa direttamente dei poteri del giudice del lavoro nel processo di cognizione, mentre nulla dispone in merito alle modalità di attuazione delle pronunzie emanate dal g.o. nel caso in cui la p.A. non si conformi spontaneamente[35].

All’indomani della privatizzazione, era stata da una parte della dottrina esclusa l’esperibilità del giudizio di ottemperanza persino per le sentenze passate in giudicato, sul rilievo che la particolare invasività della procedura – connotata dalla giurisdizione di merito del g.a. – avrebbe riportato nell’alveo della giurisdizione amministrativa quelle stesse controversie che il legislatore aveva inteso invece attribuire al g.o.[36]. Superato tale orientamento, ed ormai pacifica l’esperibilità del giudizio di ottemperanza per le sentenze passate in giudicato del giudice del lavoro[37], permane, per le ragioni già esaminate, l’esclusione per le sentenze meramente esecutive ed i provvedimenti del g.o. in funzione di giudice del lavoro non equiparati al giudicato. 

Diviene allora rilevante verificare se il giudizio di ottemperanza potrebbe in tali casi essere necessario ai fini della effettività della tutela giurisdizionale[38]. In particolare, si pone la questione se tra le modalità di attuazione previste dall’art. 669-duodecies c.p.c. possa essere compreso il potere del giudice di nominare, quale suo ausiliario, un commissario ad acta

Tenuto conto che l’art. 68 c.p.c. (“Altri ausiliari”) prevede che, “quando ne sorge necessità”, il giudice può farsi assistere da “persona idonea al compimento di atti che egli non è in grado di compiere da sé solo”, la lettura in combinato con l’art. 669-duodecies c.p.c. induce a ritenere non estranea al sistema la possibilità anche per il g.o. di nominare un commissario incaricato di compiere quegli atti di micro-organizzazione necessari per assicurare il conseguimento del bene della vita attribuito in fase cautelare[39].

Lo impone una lettura costituzionalmente orientata della norma, dal momento che, diversamente opinando, si configurerebbe, nella fase di attuazione di sentenze o provvedimenti meramente esecutivi, un’ingiustificata disparità di trattamento tra pubblico impiego privatizzato e non privatizzato, potendo quest’ultimo fruire, in sede di attuazione dinanzi al g.a., della misura sostitutoria in questione.

Il commissario nominato dal g.o. svolge funzioni ed attività non dissimili da quelle proprie dei commissari nominati dal giudice dell’ottemperanza. Poiché l’attività commissariale attiene al rapporto di lavoro privatizzato nell’ambito del quale la p.A. agisce, come detto, quale datore di lavoro jure privatorum[40], lo strumento in questione non invade la sfera dei poteri pubblicistici della p.A.[41]; ove ciò si verificasse, sarebbe infatti necessaria l’attribuzione al g.o. di una giurisdizione di merito, analoga a quella del g.a. dell’ottemperanza. Resta quindi fermo che i poteri commissariali non possono eccedere quelli della autorità giurisdizionale che lo ha nominato[42] e, quindi, non possono concernere l’adozione di atti amministrativi in senso proprio[43]

La soluzione non soffre il limite della non surrogabilità del datore di lavoro inadempiente a obblighi di facere o non facere[44], non potendo l’infungibilità essere riferita alla p.A. datrice di lavoro[45] stante la funzionalizzazione della sua attività ai principi di legalità, buona amministrazione e imparzialità di cui all’art. 97 Cost. anche quando l’attività sia regolata da norme di diritto comune[46]. Dal carattere funzionale dell’attività della p.A. datrice di lavoro consegue, quindi, la fungibilità in re ipsa delle obbligazioni inadempiute[47].

Anche in merito ad eventuali elusioni poste in essere dalla p.A. datore di lavoro (come accaduto nel caso di specie) tramite atti di micro-organizzazione, contrasterebbe con l’effettività della tutela giurisdizionale imporre la proposizione di una nuova domanda giudiziale piuttosto che un’istanza ex art. 669-duodecies c.p.c. diretta a contestare l’inesatta ottemperanza e, quindi, la persistente non soddisfazione della pretesa azionata in sede cautelare[48].

 

5. Considerazioni conclusive

 Le descritte soluzioni – atte a fornire al giudice dell’esecuzione strumenti idonei a far conseguire al privato un’utilità sostanziale concreta – sono alla base della decisione del Consiglio di Stato e, quindi, dallo stesso condivise, seppure in maniera non particolarmente argomentata (ed implicitamente con riguardo alla possibilità di nomina di un commissario). Illustrata la natura negoziale delle determinazioni della p.A. e la natura di interesse legittimo di diritto privato dell’antistante situazione giuridica soggettiva, si legge in sentenza che “scolora così ogni adombrata questione d’illegittimità costituzionale del diverso regime esecutivo delle ordinanze di questo Giudice affidato a quest’ultimo in via ordinaria col rito ex art. 59 c.p.a., rispetto a quanto accade per le ordinanze dell’AGO, per la duplice, evidente ragione, per un verso, che ciascuno dei due sistemi processuali, specularmente e rispettivamente, offre un medesimo tipo di tutela esecutiva cautelare … sì da render superfluo l’intervento esecutivo dell’una giurisdizione sull’altra”.

Va del resto considerato che, oltre a richiedere il giudicato, i poteri del giudice amministrativo di ottemperanza nei confronti dei provvedimenti del g.o. scontano il limite ordinamentale del passaggio di giurisdizione, con la conseguente impossibilità di integrazione da parte del g.a.[49]. Da ciò consegue, ad esempio, che anche eventuali contestazioni ad atti adottati dal commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza non potrebbero essere mosse dalle parti tramite reclamo ai sensi dell’art. 114, comma 6, c.p.a., ove introduttive di un thema decidendumesterno alla giurisdizione del giudice amministrativo[50].

Fornendo al giudice civile dell’esecuzione adeguati strumenti per l’effettività della tutela giurisdizionale, attraverso l’interpretazione proposta del quadro normativo di riferimento, il giudizio di ottemperanza non pare, quindi, una soluzione costituzionalmente necessitata nella specifica controversia di lavoro all’attenzione del Consiglio di Stato.

 

  TAR Lazio, Sez. II-quater, 12 febbraio 2020 n. 1934.

 Ex multis, TAR Campania, Sez. VII, 30 dicembre 2017 n. 6156; TAR Campania, Sez. VIII, 2 febbraio 2021 n. 689; TAR Calabria, Reggio Calabria, 17 settembre 2020 n. 555.

 TAR Campania, Sez. VIII, 2 febbraio 2021 n. 689; TAR Lazio, Sez. II-quater, 12 febbraio 2020 n. 1934.

 TAR Campania, Sez. VII, 30 dicembre 2017, n. 6156; Id., Sez. VIII, 2 febbraio 2021 n. 689; TAR Calabria, Reggio Calabria, 17 settembre 2020 n. 555.

 Cass., Sez. un., 28 dicembre 2007 n. 27187; Id., Sez. VI, 8 febbraio 2011 n. 3124.

 Cass., Sez. un., 28 dicembre 2007 n. 27187.

 Cass., Sez. un., 28 febbraio 2019 n. 6039; Id., Sez. II, 5 marzo 2019 n. 6360.

 Cfr. R. Caponi, La nuova disciplina dei procedimenti cautelari in generale (l. n. 80 del 2005), in Foro it., 2006, V, 69.

 A. Carratta, Processo sommario (dir. proc. civ.), in Enc. dir., 2008.

 TAR Toscana, Sez. I, 17 dicembre 2020 n. 1687; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 31 gennaio 2018, n. 167; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 1° aprile 2016, n. 834; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 25 marzo 2015 n. 4566; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 13 marzo 2013 n. 764.

 Ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 25 maggio 2020 n. 5464. In dottrina M. De Cristofaro, Sommarizzazione e celerità tra efficienza e garanzie, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 2020, 481 ss.

 A. Carratta, Processo sommario, cit.

 R. Caponi, Un nuovo modello di trattazione a cognizione piena: il procedimento sommario ex art. 702-bis c.p.c., in www.judicium.it; P. Biavati, Le recenti riforme e la complessità trascurata, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 2020, 434.

[14] Per una sintesi delle quali cfr. G. Lisella, Modelli decisori nel procedimento sommario di cognizione e termini per appellare, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 2020, 297.

 Cons. Stato, Ad. plen., 10 aprile 2012 n. 2.

 Essa, infatti, “da un lato dà atto dell’esistenza e della misura del credito (vuoi sulla base della dichiarazione del terzo, vuoi sulla base dell’esito di un giudizio di cognizione incidente nel processo di esecuzione) e, dall’altro lato, trasferisce tale credito dal debitore pignorato al creditore esecutante” (Cons. Stato, Ad. plen., 10 aprile 2012 n. 2).

[17] Cons. Stato, Sez. III, 13 marzo 2019 n. 1677.

 Cons. Stato, Sez. III, 13 marzo 2019 n. 1677: “Non si può infatti escludere che le parti, a differenza di quanto avviene per le procedure monitorie non opposte, agiscano con diverso e autonomo giudizio di cognizione per far valere l’insussistenza dell’obbligazione a base dell’ordinanza”.

 Ex multis Cass., Sez. lav., 15 novembre 20918 n. 29429; Id., 6 dicembre 2018 n. 31647; Id., 4 luglio 2016 n.14390.

 La disposizione aggiunge che, qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo; viene coì comunque recuperata la via giudiziaria ordinaria. 

 Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2018 n. 29429.

 Corte cost., 14 ottobre 2020, n. 212, in Guida al dir., 2020, 43, 30, per un commento alla quale M. Basilico, Il ricorso d’urgenza impedisce la decadenza verso gli atti del datore di lavoro. Dalla Corte costituzionale un ammonimento al giudice comune, in Giustiziainsieme.it, 24 novembre 2020.

 La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nella parte in cui non prevede che l’impugnazione stragiudiziale di cui al primo comma della stessa disposizione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dagli adempimenti ivi indicati, anche dal deposito del ricorso cautelare ante causam ex artt. 669-bis, 669-tere 700 c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24, 111, 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, era stata sollevata dal Tribunale di Catania, Sezione lavoro, con ordinanza del 17 maggio 2019 (in G.U. serie speciale 9 ottobre 2019 n. 41), nel caso di un lavoratore che aveva proposto ricorso d’urgenza contro il trasferimento disposto dal datore di lavoro nella sede di un’altra regione senza poi promuovere anche il giudizio di merito previsto per impedire la decadenza dall’impugnazione.

 Corte cost., sentenze n. 236 del 2010, n. 403 del 2007; n. 165 del 2000, n. 437 e n. 318 del 1995, n. 190 del 1985; ordinanza n. 225 del 2017.

 Corte cost., sentenza n. 253 del 1994.

 Come ricordato anche da Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 2018 n. 3853.

 Corte cost., ord. 25 marzo 2005 n. 122; Id., 8 febbraio 2006 n. 44.

 In argomento sia consentito rinviare a G. Mari, Giudice amministrativo ed effettività della tutela. L’evoluzione del rapporto tra cognizione e ottemperanza, Napoli 2013, 170 ss.

 Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 22 giugno 2016 n. 2769: “il giudice dell’ottemperanza è investito, per un verso, della potestà della cognizione piena del rispetto del giudicato e, quindi, della regola di azione stabilita con il dictum della decisione di cui si domanda l’esecuzione e, per un altro verso, ove ne ravvisi la mancata attuazione, la violazione o l’elusione, dei poteri dispositivi catalogati dall’art. 114, comma 4, c.p.a. La titolarità e l’esercizio di tali poteri si rivela, peraltro, del tutto funzionale alla compiuta attuazione del decisum (in un’ottica di piena effettività della tutela) e alla conseguente conformazione ad esso dell’azione amministrativa e, come tale, automaticamente implicata dalla proposizione dell’azione di giudicato”.

 Cfr., ex multis, Cass., Sez. un., 14 aprile 2020 n. 7825, che distingue tra potere di interpretare il giudicato e potere integrativo ai fini del rilievo dell’eccesso di potere giurisdizionale sindacabile ai sensi dell’art. 111 Cost.; Cons. Stato, Sez. IV, 30 ottobre 2015 n. 4977.

 Cass., Sez. lav., ord. 10 novembre 2017 n. 26694; Id., 12 ottobre 2010 n. 21088.

 Su cui L. Bigliazzi Geri, voce Interesse legittimo: diritto privato, in Dig. disc. priv., Sez. civ., IX, Torino, 1993, 527. In giurisprudenza, tra le più recenti: Cass., Sez. lav., 28 febbraio 2020 n. 5546; Id., 10 novembre 2017 n. 26694.

 Cfr., Cass., sez. lav., 28 febbraio 2020 n. 5546; Cass., sez. lav., 18 giugno 2014 n. 13867.

 Sul potere di disapplicazione del g.o. nelle controversie sul pubblico impiego privatizzato cfr. A. Police, Inottemperanza della p.a. ai provvedimenti del giudice ordinario (in materia di pubblico impiego) ed esecuzione in forma specifica, in Dir. proc. amm., 2003, 925.

 In argomento, in aggiunta alla dottrina citata nelle successive note, G. Vercillo, Profili problematici in ordine alle tecniche di tutela esecutiva specifica dei diritti strumentali del lavoratore alle dipendenze della p.A., in Judicium.it, 2010; G. Albenzio, L’esecuzione delle sentenze del giudice del lavoro nei confronti della pubblica amministrazione, in Foro it., 1999, I, 3475; A. Pileggi, I poteri del giudice, in Commentario sulla riforma del lavoro pubblico, Milano, Aggiornamento 2010; A. Travi, La giurisdizione civile delle controversie di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. proc. amm., 2001, 310.

 B. Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice ed esecuzione della sentenza nelle controversie di lavoro con la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 413 ss., che propende, quindi, per la sola esecuzione tramite gli strumenti del c.p.c. aperti, tuttavia, ad alcune modalità attuative riprese dal giudizio di ottemperanza, quale la nomina di un commissario ad acta, ausiliario del giudice ai sensi dell’art. 68 c.p.c., allo scopo di realizzare le prestazioni di facere indicate in sentenza, connotate da alcune peculiarità rispetto a quelle strutturalmente semplici cui è preordinata di regola l’esecuzione nel c.p.c..

 Ex multis Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 2009 n. 561; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 24 marzo 2018 n. 1922.

 Sul principio di effettività della tutela giurisdizionale sia consentito nuovamente rinviare a G. Mari, Giudice amministrativo ed effettività della tutela, cit., 34 ss. e alla dottrina ivi richiamata.

 In argomento I. Zingales, Pubblica amministrazione e limiti della giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007, 112; G. Meliadò, L’effettività della tutela giurisdizionale nel pubblico impiego, in Riv. it. dir. lav., 2010, 65; B. Sassani, L’esecuzione delle sentenze civili di condanna dell’amministrazione nei rapporti di lavoro, in Riv. esec. forz., 2005, 1.

 Cfr. Trib. Campobasso, Sez. lav., ord. 19 agosto 2013 n. 403; Trib. Roma, Sez. II lav., 19 marzo 2018 n. 6099.

 Cfr. I. Zingales, Pubblica amministrazione, cit., 113, osserva che “neanche sulla base di quanto statuito nell’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. E può escludersi l’attuazione coattiva attraverso commissari ad acta”, poiché “il divieto di revoca o modifica contemplato in tale norma si riferisce esclusivamente a provvedimenti amministrativi (quali, ad esempio, gli atti macroorganizzativi) e non può, pertanto, riguardare gli atti privati o paritetici, quali quelli di microorganizzazione”.

 A. Police, Inottemperanza, cit.

   In argomento cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 dicembre 2011 n. 6773.

 Per una sintesi ricostruttiva dei diversi orientamenti A. Police, Inottemperanza, cit.

 B. Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice, cit., 413.

 Cfr. Trib. Reggio Calabria, Sez. lav., 11 aprile 2011: “Gli spazi di fungibilità nel pubblico impiego sono più ampi rispetto a quanto accade nel lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati, dal momento che nel rapporto di pubblico impiego sono ravvisabili passaggi di carattere formale – assenti nei rapporti di lavoro privati -, come tali fungibili. Infatti … l’infungibilità è concetto riferibile a mere condotte materiali e non si attaglia a tutti quegli atti e provvedimenti formali che nel pubblico impiego contrattualizzato – in misura maggiore di quella riscontrabile nei rapporti di lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati – costituiscono “necessario presupposto della condotta materiale (ad es. inserimento del dipendente nella pianta organica, atto attributivo di diversa qualifica, ovvero formale inserimento del dipendente in un elenco di aspiranti cui necessariamente attingere (…)” (ordinanza 1.12.2006). Inoltre la potenziale coercibilità dei provvedimenti giudiziali nei rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione trova fondamento nel dover essere, l’attività della pubblica amministrazione, improntata ai canoni di cui all’art. 97 Cost., a differenza di quella del datore di lavoro privato, riconducibile invece all’art. 41 Cost. E fa parte del buon andamento dell’amministrazione l’osservanza del principio di legalità e conseguentemente dei comandi giudiziali che di tale principio rappresentano la specificazione nel caso concreto”; Trib. Larino, Sez. lav., ord. ex art. 669-duodecies c.p.c., 19 settembre 2013 (R.G. n. 403/13); Trib. Pavia, Sez. lav., 5 giugno 2017 (R.G. N. 361/2017).

 In argomento A. Police, Inottemperanza, cit., 954, che osserva che “La tesi dell’infungibilità del comportamento del datore di lavoro pubblico – in conformità con quanto già dottrina e giurisprudenza maggioritaria hanno riconosciuto per i comportamenti del datore di lavoro privato – si giustifica in quanto parifica la tutela offerta dall’ordinamento al lavoratore pubblico con quella tradizionalmente assicurata al lavoratore privato. Detta parificazione degli strumenti di tutela, tuttavia, non è perfetta, giacché al lavoratore pubblico, a differenza del privato, è sempre consentita – una volta che si sia formato il giudicato – la strada del ricorso al giudizio d’ottemperanza. Tale impostazione, in ogni caso, non consente di cogliere la differenza sostanziale che esiste tra il datore di lavoro pubblico e quello privato. Il datore di lavoro privato, infatti, persegue con la sua attività principalmente un proprio fine di lucro; altrettanto non può dirsi per la p.A. che, anche quando si avvale di strumenti di diritto privato, è istituzionalmente deputata alla cura dell’interesse pubblico”; I. Zingales, Pubblica amministrazione, cit., 109-110. Cfr., in argomento, per una soluzione non pienamente coerente, Trib. Reggio Calabria, Sez. lav., 22 luglio 2010: “non può automaticamente ritenersi incoercibile per il datore di lavoro pubblico ogni attività che deve ritenersi tale per il datore privato. Semmai è vero il contrario: la regola, in materia di impiego contrattualizzato, è la coercibilità dei comandi giudiziali, in quanto questi costituiscono la specificazione nel caso concreto del comando normativo, al cui rispetto la pubblica Amministrazione non può sottrarsi, in quanto soggetta ai principi di buona amministrazione affermati dall’art 97 Cost. Deve quindi distinguersi fra gli atti che possono essere coattivamente posti in essere tramite ausiliario del giudice (o commissario ad actache dir si voglia), previsto in via generale dall’art 68 c.p.c., ed atti fortemente discrezionali, o involgenti scelte infungibili della pA. Solo in relazione a questi ultimi è oggettivamente preclusa qualsiasi attuazione coattiva … Nella specie l’ordinanza del giudice della cautela, emessa il 1.2.2010, della quale si chiede l’attuazione, contiene in realtà due statuizioni: l’una è la sospensione dell’efficacia del conferimento dell’incarico di Direttore dell’Ufficio Acquisizioni al N; l’altra l’ordine di rinnovo della procedura selettiva, nel rispetto delle norme di legge e regolamentari (cfr ordinanza del 1.2.2010). La decisione in questa sede dev’essere diversa in relazione alle due pronunzie. La prima pronunzia non necessita di attuazione. È un provvedimento che colpisce direttamente l’atto di nomina, sospendendone gli effetti in via cautelare, e prelude ad una eventuale pronunzia di annullamento in sede di giudizio di merito. Non necessita di alcun altro intervento, trattandosi di atto per sua natura autoesecutivo … Diversa riflessione deve invece effettuarsi per il secondo comando cautelare, cioè l’ordine di rinnovare la procedura di affidamento dell’incarico conteso Questa attività è tuttavia insuscettibile di essere surrogata da altri o da un commissario ad acta, in quanto le scelte che richiede attengono alla discrezionalità ed a valutazioni non fungibili dell’ente , cui queste scelte sono demandate e che non possono essere svolte da altri”.

 I. Zingales, Pubblica amministrazione, cit., 116.

 C. Delle Donne, L’esecuzione: il giudizio di ottemperanza, in B. Sassani, R. Villata, Il codice del processo amministrativo, Torino, 2012, 1255. In giurisprudenza TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 19 novembre 2018 n.6654.

 Cass., Sez. un., 15 ottobre 2020 n. 22374.

 

 

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