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Premessa

Il procedimento unitario (artt. 40 ss. CCII) presenta alcune tra le novità più significative nella disciplina delle impugnazioni, con tratti inediti rispetto al passato, incentrati non solo su una maggiore attenzione al diritto di difesa del debitore, ma anche all’esigenza del bilanciamento tra gli interessi di quest’ultimo e quello dei creditori, oltre che sulla necessità di tutelare l’impresa a fronte di possibili e divergenti esiti delle pronunce che, nei diversi gradi di giudizio, riguardino i provvedimenti giurisdizionali in materia di regolazione concorsuale dello stato di crisi o di insolvenza dell’impresa. Diverse disposizioni contenute nella disciplina sulle impugnazioni si connotano anche come possibile momento di sperimentazione non solo di nuovi modelli processuali (v. ad es. art. 53, comma 5-bis, CCII), ma anche della regolazione delle spese processuali, dove si assiste a un’accentuazione degli aspetti sanzionatori rispetto a condotte meramente dilatorie o gravemente colpevoli della parte (al punto da spingersi fino alla revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio).

La declaratoria di inammissibilità della proposta di concordato preventivo

Nel vigore della legge fallimentare numerose questioni interpretative in tema di impugnazione hanno sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, come nel caso del decreto di inammissibilità della proposta di concordato preventivo (v. lo schema riprodotto in R. Brogi, Le SS.UU. sulle impugnazioni del decreto di inammissibilità del concordato preventivo).

Sul punto l’art. 162 l.fall. prevedeva che:

– il tribunale, se all’esito del procedimento verificava l’assenza dei presupposti di cui agli articoli 160, commi primo e secondo, e 161, sentito il debitore in camera di consiglio, con decreto non soggetto a reclamo dichiarava inammissibile la proposta di concordato (secondo comma);

– contro la sentenza dichiarativa di fallimento era proponibile reclamo a norma dell’art. 18 l.fall. e in tale sede potevano farsi valere anche motivi attinenti all’ammissibilità della proposta di concordato (art. 162, ultimo comma, l.fall.)

In sostanza, se il procedimento si chiudeva con la declaratoria di inammissibilità della proposta di concordato il decreto del tribunale non era reclamabile e neppure soggetto al ricorso straordinario in Cassazione ex art. 111 Cost. (v. Cass. S.U. 28 dicembre 2016, n. 27073: “Il decreto con cui il tribunale dichiara l’inammissibilità della proposta di concordato, ai sensi dell’art. 162, comma 2, l.fall. (eventualmente, anche a seguito della mancata approvazione della proposta, ai sensi dell’art. 179, comma 1) ovvero revoca l’ammissione alla procedura di concordato, ai sensi dell’art. 173, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, non è soggetto a ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., non avendo carattere decisorio. Invero, tale decreto, non decidendo nel contraddittorio tra le parti su diritti soggettivi, non è idoneo al giudicato.”).

Con l’art. 47, comma 4, CCII la situazione muta radicalmente: il decreto che dichiara inammissibile la proposta di concordato preventivo è autonomamente reclamabile davanti alla corte d’appello. Nell’ipotesi in cui, il tribunale dichiari, su ricorso di uno dei soggetti legittimati, l’apertura della liquidazione giudiziale (art. 49, comma 2, CCII) troveranno applicazione, in materia di impugnazione, le disposizioni contenute nell’art. 51 CCII.

Tornando all’esame dell’art. 47, comma 4, CCII il tribunale, prima di dichiarare l’inammissibilità della proposta, può concedere un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano o produrre nuovi documenti.

La norma, rinviando alle disposizioni contenute negli artt. 737 e 738 c.p.c., stabilisce che la corte d’appello decide in camera di consiglio, con decreto motivato

Di particolare rilievo è la previsione contenuta nel sesto comma dell’art. 47 CCII, il quale prevede che la domanda possa essere riproposta, decorso il termine per proporre reclamo, quando si verifichino mutamenti delle circostanze. In tale ipotesi la verifica sull’effettiva presenza di queste ultime viene svolta dal tribunale d’ufficio e può costituire, in caso di mancato riscontro di tale requisito, motivo per dichiarare l’inammissibilità della nuova domanda.

Il regime unitario delle impugnazioni avverso la sentenza che si pronuncia sull’omologazione e sull’apertura della liquidazione giudiziale

L’art. 48 CCII disciplina il procedimento di omologazione del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione e del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione [sul tema v. R. Brogi, Codice della crisi d’impresa e procedimento unitario: il tribunale concorsuale]. Tale procedimento si conclude con una sentenza, sia in caso di omologazione che di rigetto di quest’ultima.

Le possibili varianti possono essere quindi:

– la sentenza di omologazione

– la sentenza di rigetto dell’omologazione

– la sentenza di rigetto dell’omologazione con contestuale pronuncia, su istanza di uno dei soggetti legittimati, dell’apertura della liquidazione giudiziale ai sensi dell’art. 49 CCII. Il riferimento testuale della norma contenuta nell’art. 48, comma 4, CCII (provvede con sentenza eventualmente dichiarando, su ricorso di uno dei soggetti legittimati, l’apertura della liquidazione giudiziale secondo quanto previsto nell’art. 49, commi 1 e 2) porta a ritenere che si abbia un unico provvedimento, con la forma della sentenza, all’interno del quale viene rigettata l’omologazione (del concordato preventivo, del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione o all’accordo di ristrutturazione) eventualmente dichiarando anche l’apertura della liquidazione giudiziale.

È da rilevare come il legislatore abbia accomunato alle ipotesi appena richiamate un regime di impugnazione unitario, riferibile anche alla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale non accompagnata da un provvedimento di rigetto dell’omologazione.

A tal fine l’art. 51 CCII prevede, infatti, che: “Contro la sentenza del tribunale che pronuncia sull’omologazione del concordato preventivo, del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione o degli accordi di ristrutturazione oppure dispone l’apertura della liquidazione giudiziale le parti possono proporre reclamo.”

La norma precisa poi che la sentenza che dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale può essere impugnata anche da qualunque interessato.

Sembra, quindi, essere ampliata la legittimazione a impugnare l’apertura della liquidazione giudiziale in capo a qualsiasi interessato e non solo le parti. Il coordinamento tra l’art. 51 CCII e l’art. 48, comma 6, CCII porta, poi, a ritenere che qualsiasi interessato possa proporre impugnazione anche avverso la sentenza che dichiari l’apertura della liquidazione giudiziale all’interno del medesimo provvedimento con il quale viene rigettata l’omologazione del concordato preventivo, del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione o dell’a.d.r. In tale ipotesi si porrà la questione – invero assai complicata – sui limiti entro il quale il terzo interessato potrà proporre impugnazione e se, in particolare, potrà o meno lambire anche le questioni trattate del tribunale nella parte della sentenza con la quale viene rigettata l’omologazione.

Altra questione interpretativa riguarderà il riferimento contenuto alle parti: se in caso di sentenza di apertura della liquidazione giudiziale queste ultime saranno da individuare, oltre al debitore, nei soggetti che hanno presentato istanza ex art. 37 CCII, nell’ipotesi di sentenza che si pronuncia sull’omologazione del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione o sul piano di ristrutturazione soggetto a omologazione si porrà la questione dell’eventuale restrizione della legittimazione a proporre reclamo ex art. 51 CCII ai soli soggetti che hanno proposto opposizione avverso l’omologazione, oltre che al debitore.

I requisiti del ricorso sono scolpiti nell’art. 51, comma 2, CCII, il quale prevede che deve contenere:

a) l’indicazione della corte di appello competente

b) le generalità dell’impugnante e del suo procuratore e l’elezione del domicilio nel comune in ha sede la corte di appello

c) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni

d) l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.

Il termine per proporre impugnazione decorre per le parti dalla data della notificazione telematica del provvedimento a cura dell’ufficio (con applicazione dell’art. 327, comma 1, c.p.c.) e, per gli altri interessati, dalla data di iscrizione nel registro delle imprese.

La presentazione del reclamo non sospende l’efficacia esecutiva della sentenza, salvo quanto previsto nell’art. 52 CCII (v. infra).

Il procedimento è delineato nei commi da 5 a 12. Il presidente designa il relatore (secondo le previsioni tabellari vigenti nell’ufficio) e fissa con decreto l’udienza di comparizione entro sessanta giorni dal deposito del ricorso. Quest’ultimo è notificato, a cura della cancelleria o in via telematica, al reclamante, al curatore ed al commissario giudiziale e alle altre parti entro dieci giorni. A una prima lettura sembra che la “o” disgiuntiva (tra la notificazione a cura della cancelleria e quella in via telematica) sia da attribuire a un mero refuso, con la conseguenza che, in ogni caso, è la cancelleria a dover provvedere alla notificazione in via telematica del reclamo e del decreto di fissazione d’udienza.

Tra la data della notificazione e quella del reclamo deve decorrere un termine non minore di trenta giorni. Si tratta di un termine importante, perché la data dell’udienza segna, a ritroso, il maturare di una decadenza in capo alle parti resistenti che si devono costituire almeno dieci giorni prima dell’udienza, eleggendo il domicilio nel comune in cui ha sede la corte di appello. L’art. 51, comma 8, CCII prevede che la costituzione avvenga mediante il deposito in cancelleria di una memoria contenente l’esposizione delle difese in fatto e in diritto, nonché l’indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti.

Il medesimo termine di decadenza previsto per le parti segna altresì il termine per l’intervento di qualunque interessato.

Ora, se è vero che il mancato rispetto del termine di trenta giorni previsto per la notifica del reclamo alle parti può rendere possibile la richiesta di rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. per l’eventuale costituzione della parte, il richiamo della norma appena citata diventa più complesso in relazione ai termini di decadenza previsti per l’intervento del terzo. A una prima lettura sembra, tuttavia, che il terzo interessato possa avvalersi dell’eventuale rimessione in termini ammissibile per la parte resistente – cui il reclamo sia notificato oltre il trentesimo giorno prima dell’udienza – proprio perché l’art. 51, comma 9, CCII àncora al termine stabilito per sua costituzione il limite ultimo per l’intervento.

Proseguendo con la disciplina del procedimento, l’art. 51, comma 10, CCII prevede che all’udienza il collegio, sentite le parti, assume, anche d’ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova ritenuti necessari, eventualmente delegando anche uno dei componenti del collegio. Lo spettro dei poteri istruttori del giudice d’appello è, pertanto, abbastanza ampio, non essendo previsti limiti ed essendo possibile – in conformità agli interessi pubblicistici che connotano l’apertura delle procedure concorsuali – provvedere d’ufficio all’assunzione dei mezzi di prova.

Esaurita la trattazione la corte d’appello provvede sul ricorso con sentenza entro il termine di trenta giorni (art. 51, comma 11, CCII).

La sentenza è notificata, a cura della cancelleria e in via telematica, alle parti, e deve essere pubblicata e iscritta al registro delle imprese a norma dell’art. 45 CCII (art. 51, comma 12, CCII). Tale notificazione segna il dies a quo per la proposizione del ricorso per cassazione, che è di trenta giorni (art. 51, comma 13, CCII) e non sospende l’efficacia della sentenza, salva l’applicazione dell’art. 52 CCII (v. infra), per l’ipotesi di ricorso avverso la sentenza con la quale la corte di appello ha rigettato il reclamo.

Di particolare interesse sono le previsioni in materia di spese contenute nell’art. 51, comma 12, CCII: la norma esordisce, prevedendo che, salvo quanto previsto nell’art. 96 CCII, la sentenza che decide sull’impugnazione, il giudice dichiara – e il modo indicativo è emblematico di un potere esercitabile d’ufficio – se la parte soccombente ha agito o resistito con mala fede o colpa grave e, in tale caso, revoca, con efficacia retroattiva, l’eventuale provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio. Si tratta di una previsione inedita che va a contemperare, correttamente, l’esercizio del diritto di difesa da parte dei non abbienti con quello di responsabilità della parte che agisca o resista con mala fede o colpa grave.

Altra previsione che va nel senso della responsabilizzazione in relazione a iniziative processuali temerarie riguarda l’ipotesi di società o enti: il giudice dichiara – anche qui, a una prima lettura, d’ufficio e senza la necessità di un’iniziativa di parte – se sussiste malafede del legale rappresentante che ha conferito la procura e, in caso positivo, lo condanna in solido con la società o l’ente al pagamento delle spese dell’intero processo e al pagamento di una somma pari al doppio del contributo unificato di cui all’art. 9 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Il riferimento al pagamento di un importo pari al doppio del contributo unificato contenuto nell’art. 51, comma 15, CCII sembra ritagliare – a una prima lettura – un ambito applicativo differenziato rispetto alla previsione contenuta nell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002 (“Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso.”) portando a configurare tra le due disposizioni appena richiamate un’ipotesi di concorso reale di norme.

La sospensione della liquidazione, dell’esecuzione del piano o degli accordi (art. 52 CCII)

La scelta di definire in modo unitario il regime di impugnazione delle sentenze che si pronunciano sull’apertura della liquidazione giudiziale, così come sull’omologazione del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione e del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione si traduce, nell’art. 52 CCII in una disciplina unitaria, con specifico riferimento ai profili di natura processuale, alla sospensione della liquidazione o dell’esecuzione del piano.

Mentre per quanto riguarda la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale l’art. 52, comma 1, CCII fa riferimento alla liquidazione dell’attivo, alla formazione del passivo e al compimento di altri atti di gestione (con una formula di chiusura che, da un lato, amplia i poteri di inibitoria della corte di appello, ma dall’altro lato impone a quest’ultima di indicare quali siano gli specifici atti di gestione, non sembrando che il giudice di seconde cure possa limitarsi a un mero richiamo alla formulazione della norma), nel caso dell’ impugnazione del provvedimento di omologazione del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione o del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione l’inibitoria può riguardare l’attuazione del piano, sospendendone l’intera esecuzione o solo alcuni atti (in parte) e può essere anche temporanea. È evidente che a fronte di una formulazione così ampia il potere di inibitoria della corte di appello sull’esecuzione del piano omologato da un provvedimento impugnato sia alquanto ampio. Nondimeno, resta impregiudicata – a una prima lettura della norma – sia la necessità di un’istanza di parte che l’espressa indicazione degli eventuali atti oggetto di sospensione, nell’ipotesi in cui quest’ultima sia parziale. La richiesta di sospensiva, dovendo essere qualificata come provvedimento di natura cautelare, richiede poi la presenza non solo del cd. fumus boni iuris (da ricondurre alla fondatezza dei motivi di reclamo), ma anche del periculum in mora, inerente al pregiudizio grave e irreparabile conseguente all’esecuzione del piano o di alcuni suoi atti. Tale periculum, se da un lato deve essere valutato in un’ottica prevalentemente patrimoniale, dall’altro lato deve essere specificamente motivato dalla parte reclamante, sia con riferimento all’esecuzione di singoli atti del piano omologato che con riferimento all’eventuale richiesta di sospensiva dell’intera esecuzione del piano.

Opportunamente, l’art. 52, comma 2, CCII precisa che la corte di appello può disporre le opportune tutele per i creditori e per la continuità aziendale, andando così a integrare la valutazione del periculum, secondo una nuova – e per certi aspetti – inedita prospettiva di bilanciamento degli interessi, non sembra limitata alla dinamica conflittuale tra debitore e creditori, ma funzionale (in virtù del richiamo alla continuità aziendale) a dare rilievo agli interessi (ulteriori) che ruotano attorno a quest’ultima.

In base all’art. 52, comma 3, CCII l’istanza di sospensione è proposta per il reclamante con il reclamo e per le parti con l’atto di costituzione. Tale previsione sottende un termine di decadenza per la presentazione dell’istanza di sospensiva, per quanto tale conclusione interpretativa scaturisca dal collegamento sistematico con le disposizioni che disciplinano i termini (perentori) per la presentazione del reclamo e per la costituzione.

In caso di istanza di sospensiva il presidente ordina, con decreto, la comparizione delle parti dinanzi al collegio in camera di consiglio e dispone che copia del ricorso e del decreto sia notificata alle altre parti e al curatore o al commissario giudiziale, nonché al pubblico ministero.

La decisione sull’istanza di sospensiva, in base all’art. 54, comma 4, CCII è assunta con decreto, contro il quale non è ammesso il ricorso per cassazione.

Le novità contenuta nell’art. 53 CCII sugli effetti della revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale o dell’omologazione del concordato e degli a.d.r.

Una delle novità più significative del procedimento di reclamo – in totale discontinuità rispetto al passato – attiene alla disciplina degli effetti della revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale e dell’omologazione del concordato e degli accordi di ristrutturazione, nonché del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (v. infra).

1) la revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale

Partendo dalla liquidazione giudiziale il legislatore con la disciplina dei primi quattro commi dell’art. 53 CCII – oltre a confermare la salvezza degli effetti degli atti legalmente compiuti (es. vendite ed eventuali riparti) – rende possibile la produzione di effetti provvisori alla sentenza di revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale, dal momento della pronuncia fino al suo passaggio in giudicato (che potrebbe richiedere il decorso di un significativo lasso temporale nell’ipotesi di ricorso in cassazione avverso la pronuncia del giudice di seconde cure).

In un’inedita prospettiva di bilanciamento degli interessi in gioco – i.e. quello del debitore a non vedersi imporre gli adempimenti della procedura liquidatoria nonostante il provvedimento di revoca e fino al passaggio in giudicato della pronuncia del giudice di legittimità e quello dei creditori a non vedere compromessi i propri diritti nell’ipotesi in cui la sentenza di revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale sia cassata dal giudice di legittimità – l’art. 53, comma 1, CCII conferma, in primo luogo, che gli organi della procedura restano in carica, fino al passaggio in giudicato della sentenza che ha disposto la revoca, ma con i compiti previsti nel presente articolo. L’inciso appena richiamato fa presagire che la permanenza in carica degli organi della procedura sia accompagnata dalla rimodulazione dei relativi poteri, che secondo le indicazioni contenute nell’art. 52, comma 2, CCII vede un passaggio da uno spossessamento pieno del debitore a uno spossessamento attenuato (simile, almeno in parte, a quello previsto nell’art. 46 CCII). In particolare, la norma appena richiamata stabilisce che dalla pubblicazione della sentenza di revoca e fino al momento in cui essa passa in giudicato, l’amministrazione dei beni e l’esercizio dell’impresa spettano al debitore, sotto la vigilanza del curatore. Il debitore recupera, quindi, l’amministrazione dei beni e l’esercizio dell’impresa, ma limitatamente al compimento degli atti di ordinaria amministrazione. L’art. 52, comma 2, CCII prosegue, infatti, stabilendo che il tribunale, assunte, se occorre sommarie informazioni e acquisito il parere del curatore, può autorizzare il debitore a stipulare mutui, transazioni, patti compromissori, alienazioni e acquisti di beni immobili, rilasciare garanzie, rinunciare alle liti, compiere ricognizioni di diritti di terzi, consentire cancellazioni di ipoteche e restituzioni di pegni, accettare eredità e donazioni ed a compiere gli altri atti di straordinaria amministrazione. Proprio la formula di chiusura appena richiamata evidenzia come l’autorizzazione attenga al compimento degli atti di straordinaria amministrazione che, se compiuti dall’imprenditore in mancanza di autorizzazione da parte del tribunale, sono inefficaci nei confronti dei terzi, ai sensi dell’art. 54, comma 3, CCII. La norma appena richiamata stabilisce anche che i crediti di terzi sorti per effetto di atti legalmente compiuti dal debitore sono prededucibili ai sensi dell’art. 98 CCII. La previsione produce un impatto evidente – tale da suggerire la trattazione prioritaria dei reclami avverso la sentenza di revoca della liquidazione giudiziale davanti alla Corte di cassazione – considerato che i crediti sorti per effetto di atti legalmente compiuti sono non solamente quelli che sorgono dagli atti di straordinaria amministrazione, autorizzati (nel caso di specie) dal tribunale ex art. 53, comma 2, CCII, ma anche quelli conseguenti al compimento di atti di ordinaria amministrazione che il debitore è abilitato a compiere proprio alla luce della nuova normativa introdotta dalla norma appena richiamata. Questo significa che la prededuzione sorta nel periodo compreso tra la sentenza di revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale e la pronuncia della Corte di cassazione sul ricorso proposto avverso quest’ultima potrebbe vanificare, in toto, la soddisfazione dei creditori anteriori all’apertura della procedura nell’ipotesi in cui, la cassazione della sentenza di revoca del giudice di seconde cure, comportasse la prosecuzione la liquidazione giudiziale. In sostanza, il riconoscimento della prededuzione – da riferire all’intento del legislatore di favorire la continuità aziendale dell’imprenditore che abbia proposto, con esito positivo, il reclamo avverso la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale – rischia di far refluire sui creditori anteriori all’apertura della procedura il rischio della continuità aziendale nel periodo compreso tra la sentenza di revoca dell’apertura della procedura liquidatoria emessa dalla corte di appello e il suo passaggio in giudicato.

Con la sentenza che revoca l’apertura della liquidazione giudiziale il tribunale dispone gli obblighi informativi periodici relativi alla gestione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, che il debitore assolve sotto la vigilanza del curatore, sino al passaggio in giudicato della sentenza. Il termine per il deposito di tali informative deve essere, pertanto, indicato nella sentenza di revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale. Con la medesima periodicità il debitore deve, poi, depositare una relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa. Il tribunale, su istanza del debitore, con decreto non reclamabile, esclude la pubblicazione (totale o parziale) di tale relazione nel registro delle imprese quando la divulgazione dei dati comporta pregiudizio evidente per la continuità aziendale. Tale relazione – entro il giorno successivo al deposito o a quello della comunicazione del provvedimento del tribunale che ne disponga la secretazione parziale – deve essere, infatti, comunicata dal curatore ai creditori ed essere pubblicata nel registro delle imprese a cura della cancelleria.

La violazione da parte del debitore degli obblighi informativi appena descritti, comporta – previa segnalazione del curatore, del comitato dei creditori o del pubblico ministero – la privazione della possibilità di compiere atti di ordinaria o straordinaria amministrazione da parte del debitore mediante decreto del tribunale (pubblicato nel registro delle imprese) soggetto a reclamo ex art. 124 CCII. Il tribunale non solo provvede d’ufficio – considerato che la norma fa riferimento alla segnalazione e non all’istanza di parte – ma anche senza alcuna discrezionalità considerato che viene fatto riferimento al solo accertamento della violazione degli obblighi informativi. La norma non stabilisce quale sia il regime di gestione dell’impresa una volta che il debitore sia privato del potere di compiere gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. A una prima lettura della norma l’opzione interpretativa preferibile è quella che richiama l’art. 128 CCII, con la conseguenza che l’amministrazione del patrimonio passa nuovamente al curatore. Le questioni poste dall’art. 53, comma 4, CCII sono, in realtà, numerose, a partire dalle modalità di gestione dell’impresa in continuità. A tal proposito il punto di riferimento non può che essere costituito dalle disposizioni in materia di esercizio provvisorio (art. 211 CCII). Parimenti, potrebbe porsi il problema della liquidazione di beni deperibili o che comportino eccessivi costi di mantenimento: l’art. 53, comma 1, CCII stabilisce, infatti, che a seguito della revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale restino in carica gli organi della procedura, ma con i compiti previsti nel presente articolo.

Le possibili soluzioni sono due: o il curatore può compiere atti di liquidazione nella misura strettamente necessaria ad assicurare la conservazione del patrimonio del debitore con la sola autorizzazione del giudice delegato, oppure si ritiene che debba predisporre un programma di liquidazione appositamente dedicato alle attività liquidatorie da compiere nel frangente compreso tra l’emissione del provvedimento con il quale il debitore è privato della possibilità di compiere gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione e il passaggio in giudicato della sentenza revoca dell’apertura della liquidazione o del provvedimento che definisce l’impugnazione proposta avverso quest’ultima. Un’ulteriore questione – a fronte della privazione del potere di compiere gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione in capo al debitore – attiene alla legittimazione processuale per tutte le azioni che si rendessero necessarie alla tutela del patrimonio dell’impresa.

2) il regime delle spese processuali nella sentenza di revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale

L’ultimo periodo dell’art. 53, comma 1, CCII contiene un importante riferimento al regime delle spese processuali. La norma, facendo salvo quanto previsto dall’art. 147 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, stabilisce che le spese della procedura e il compenso del curatore sono liquidati dal tribunale, su relazione del giudice delegato e tenuto conto delle ragioni dell’apertura della procedura e della sua revoca, con decreto reclamabile ai sensi dell’art. 124 CCII. La formulazione della norma appena richiamata – nel segnare piena continuità con quanto già previsto dall’art. 18, ultimo comma, l. fall. – non tiene conto delle novità apportate all’art. 147 d.P.R. n. 115/2002 ad opera dell’art. 366 CCII il quale, prevede che: « In caso di revoca della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, le spese della procedura e il compenso del curatore sono a carico del creditore istante quando ha chiesto con colpa la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale; sono a carico del debitore persona fisica, se con il suo comportamento ha dato causa alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale. La corte di appello, quando revoca la liquidazione giudiziale, accerta se l’apertura della procedura è imputabile al creditore o al debitore.»

Di conseguenza, è la corte di appello a dover indicare nella sentenza di revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale se quest’ultima sia imputabile al creditore o al debitore, restando, quindi, riservata al tribunale solamente la liquidazione del compenso del curatore. Parimenti, è sempre l’accertamento contenuto nella sentenza del giudice di seconde cure a stabilire il soggetto su cui gravano le altre spese di procedura (la cui liquidazione resta, parimenti, compito del tribunale concorsuale).

3) la revoca dell’omologazione del concordato preventivo o degli a.d.r.

L’art. 54, comma 5, CCII prevede che, in caso di revoca dell’omologazione del concordato preventivo o degli accordi di ristrutturazione dei debiti, su domanda di uno dei soggetti interessati la corte di appello, accertati i presupposti dell’art. 121 CCII, dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale e rimette al tribunale per l’emissione dei provvedimenti previsti nell’art. 49, comma 3, CCII, a partire dalla nomina del giudice delegato e del curatore ecc… [sull’art. 49 CCII v. R. Brogi, Codice della crisi d’impresa e procedimento unitario: il tribunale concorsuale, cit.]. In base al coordinamento sistematico con l’analoga previsione contenuta nell’art. 50, comma 5, CCII (v. infra) il tribunale provvede con decreto, iscritto nel registro delle imprese. Si tratta di una novità importante che segna un tratto di discontinuità rispetto al passato, essendo, comunque, necessario che la domanda di apertura della liquidazione della procedura di liquidazione sia riproposta davanti al giudice di seconde cure da uno dei soggetti interessati che già l’avevano proposta in primo grado.

La sentenza di apertura della liquidazione giudiziale è comunicata alle parti a cura della cancelleria della corte di appello, che provvede anche alla sua comunicazione al tribunale, nonché alla sua iscrizione nel registro delle imprese (rectius: alla richiesta al conservatore di procedere alla sua iscrizione).

In parallelo con la disciplina dei primi quattro commi dell’art. 53 CCII (relativa alla revoca della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale) il comma sesto della norma appena richiamata stabilisce che il tribunale, su istanza del debitore, possa sospendere, in caso di gravi e giustificati motivi, i termini per la proposizione delle impugnazioni dello stato passivo e l’attività di liquidazione fino al momento in cui la sentenza che pronuncia sulla revoca passa in giudicato. Il meccanismo, a una prima lettura, potrebbe destare una certa perplessità, in quanto i provvedimenti, latu sensu, cautelari sono adottati dal tribunale la cui pronuncia è stata riformata dal giudice di seconde cure. In realtà, se è vero che la sentenza di revoca dell’omologazione del concordato o degli a.d.r. dispone l’apertura della liquidazione giudiziale è altrettanto inequivocabile che tale procedura sia poi gestita dal tribunale concorsuale, che è pertanto competente anche per i provvedimenti inerenti alla sospensione della liquidazione. Al pari di quanto rilevato in merito alla revoca della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale diventa, tuttavia, importante una gestione delle impugnazioni davanti alla Corte di cassazione secondo un meccanismo acceleratorio, al fine di evitare uno stallo eccessivo delle procedure concorsuali.

Di particolare, impatto è, infine, la previsione contenuta nell’art. 53, comma 5-bis, CCII, che in caso di accoglimento del reclamo avverso la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale prevede la conferma di quest’ultima, su richiesta delle parti, se l’interesse generale dei creditori o dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo una tutela risarcitoria. La ratio della norma è abbastanza intuitiva ed è quella di tutelare la continuità aziendale a condizione che realizzi contestualmente l’interesse generale della massa dei creditori o dei lavoratori, riservando una tutela di tipo risarcitorio per il creditore che abbia coltivato con successo il reclamo avverso la sentenza di omologazione. La norma, nell’attribuire un evidente potere di natura discrezionale alla corte di appello, con valutazioni di merito che non sembrano poter essere sindacabili da parte della Corte di cassazione, porrà non poche questioni applicative, a partire dal riferimento alla richiesta non di parte, ma delle parti, con una formulazione che potrebbe supportare interpretazioni differenziate, a seconda che si ritenga o meno necessaria la concorde richiesta di tutte le parti costituite davanti al giudice di seconde cure.

Il reclamo avverso il decreto di rigetto della domanda di apertura della liquidazione giudiziale

Resta quale ultima ipotesi da esaminare quella in cui il tribunale rigetti, con decreto l’istanza di apertura della liquidazione giudiziale. Si tratta di ipotesi da tenere distinta da quella in cui il tribunale omologando il concordato preventivo o l’a.d.r. o il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione in pendenza di un’istanza di apertura della liquidazione giudiziale non dia luogo a quest’ultima, posto che, in tale ipotesi il regime di impugnazione è quello (già esaminato) dell’art. 53 CCII.

Il decreto di rigetto è comunicato alle parti a cura del cancelliere ed è iscritto nel registro delle imprese, se è stata disposta la pubblicità della domanda. Entro trenta giorni dalla comunicazione il ricorrente o il P.M. possono proporre reclamo alla corte di appello che, sentite le parti, provvede in camera di consiglio, con applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 737 e 738 c.p.c., in quanto compatibili.

In caso di rigetto la corte d’appello provvede con decreto motivato – non ricorribile in cassazione – che è comunicato dalla cancelleria alle parti in via telematica, al debitore (se non costituito) ai sensi dell’art. 40, commi 6, 7e 8, CCII (dovendosi procedere, altrimenti, in via telematica) e iscritto immediatamente al registro delle imprese, in caso di pubblicità della domanda. L’eventuale domanda di condanna del creditore alla rifusione delle spese o al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c. può essere proposta solo all’interno del procedimento di reclamo e non in un separato giudizio (art. 50, comma 3, CCII).

In caso di accoglimento del reclamo la corte d’appello pronuncia sentenza con la quale dichiara aperta la liquidazione giudiziale, rimettendo per l’emissione dei provvedimenti ex art. 49, comma 3, CCII al tribunale che provvede con decreto, iscritto nel registro delle imprese (v. supra), al pari della sentenza del giudice di secondo grado. Quest’ultima è ricorribile in cassazione. Non sono, tuttavia, previste le misure, latu sensu, cautelari disciplinate nell’art. 53, comma 6, CCII, con una disparità di disciplina che non sembra giustificabile.

È invece maggiormente giustificabile l’omessa previsione nell’art. 53 CCII di quanto stabilito nell’ultimo comma dell’art. 50 CCII, trattandosi di una mera precisazione che chiarisce come il termine annuale per l’apertura della liquidazione giudiziale di cui agli artt. 33 (cessazione dell’attività) e 34 (morte del debitore) CCII decorra dalla sentenza emessa dalla corte d’appello ai sensi dell’art. 50, comma 5, CCII.

Riferimenti normativi:

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, Titolo III – Procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza

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