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Riassunto

Con la crisi economica causata dal Covid-19 il rischio di credito, attraverso le garanzie pubbliche sui prestiti, è stato scaricato dalle banche sul contribuente. La gestione dei nuovi flussi di crediti non performing – stimata in 60-100 miliardi nei prossimi due anni -, pertanto, è  materia di politica economica. Lo Stato, già gravato dal peso delle gacs, rischia di trovarsi a gestire, soprattutto attraverso il Mediocredito Centrale, una massa di incagli enorme. Servono competenze e struttura. Per questo diversi operatori di mercato hanno bussato alla porta di Mcc. Bisogna cercare le strade per arrivare a una soluzione di sistema, con il coinvolgimento della Bce. Dal nodo della gestione dei non performing passano le prospettive di rilancio dell’economia.

 

Debito buono, lo ha chiamato il premier Mario Draghi (nella foto di copertina), senza, però, dire nulla su quale capo ricada il rischio di credito. L’eccezionalità del momento storico, segnato da una pandemia dalle conseguenze economiche devastanti, ha imposto al governo di deviare da una traiettoria pluridecennale di contenimento di debito e deficit pubblico.

Tutti concordi – anche i più intransigenti sostenitori della riduzione delle spese – nell’affermare che non c’era (anzi, non c’è: siamo tuttora dentro la crisi da Covid-19) alternativa.

Il punto non è se sia stato inevitabile allargare i cordoni della borsa, quanto piuttosto guardare quale soggetto porta il peso principale, quasi esclusivo, del rischio di credito. Perché se le cose dovessero andare male (e sicuramente, almeno in parte, sarà così), qualcuno dovrà pagare il conto: non esistono pasti gratis. La risposta è che il rischio di credito ricade soprattutto su soggetti pubblici, ovvero sul contribuente.

Il decreto Sostegni Bis, approvato il 20 maggio scorso, ha confermato la proroga delle moratorie a fine anno. E ha allungato la garanzia a dieci da sei anni.

Il provvedimento, inoltre, ha prorogato i benefici fiscali per la cessione di crediti non performing. Le banche potranno cederne fino a 2 miliardi, ma le perdite su queste cessioni non potranno eccedere il 20% del valore nominale.

Si punta a far coincidere il rilancio economico post-pandemia con la fine delle moratorie. Ma, per quanto si butti la palla avanti, a un certo punto bisognerà fischiare la fine della partita. E, a quel punto, si conteranno morti e feriti.

Costo del rischio a picco per le banche

Tutto ruota attorno alle non performing exposures (npe), non performing loans (npl) e unlikely to pay (utp). Sofferenze e incagli, crediti difficili o impossibili da riscuotere. Dopo la crisi, prima finanziaria e poi economica, nata con l’esplosione della bolla dei mutui subprime Usa nel 2008, le banche si ritrovarono con bilanci zeppi di npe.

Alcune saltarono rapidamente, altre entrarono in un tunnel lungo e buio. Gli istituti italiani – definiti dal governatore della Banca d’Italia “i più solidi del mondo” –, complice la stagnazione economica del Paese, si sono avvitati in una spirale fatta di credito cattivo e impossibilità di erogare nuovi prestiti per via dei vincoli patrimoniali imposti dalla Bce. La spirale è arrivata fino a oggi, con i salvataggi recenti di Carige e Banca Popolare di Bari. Nonché con l’exit strategy del Tesoro da Banca Monte dei Paschi di Siena ancora da definire.

In questo quadro di faticoso ma progressivo risanamento dei bilanci bancari è arrivata la pandemia. Contrariamente a quanto accaduto dodici anni prima, però, gli istituti non sono rimasti col cerino in mano. Di fronte alle pressioni politiche e delle banche centrali a erogare credito senza analisi approfondite (anzi, si potrebbe dire a occhi chiusi), le banche hanno chiesto che i governi mettessero in campo forme di garanzia pubblica.

Tutti d’accordo, dunque, a sostenere l’economia, di fatto erogando helicopter money. Ma la responsabilità (non solo politica, attenzione: si parla di rischio di credito, dunque chi è il pagatore di ultima istanza) se la sono presa gli Stati.

Non a caso, il costo del credito delle banche italiane nel primo trimestre di quest’anno è crollato rispetto al 2020. Tra gli istituti che hanno comunicato i risultati del periodo gennaio-marzo, il costo del rischio di Intesa Sanpaolo è sceso a 35 centesimi di punto dai 48 dell’intero anno scorso. UniCredit ha visto il costo del rischio precipitare a 15 punti base. E per l’intero 2021 Piazza Gae Aulenti stima un costo del rischio inferiore a 60 centesimi. Mediobanca, nel periodo gennaio-marzo, ha visto il costo del rischio risalire a 53 punti base dai 39 punti base dei tre mesi precedenti, ma si mantiene ben al di sotto dei livelli di un anno prima (85 centesimi). Il costo del rischio di Bper Banca si è attestato a 84 punti base (200 punti base, al netto delle rettifiche addizionali su crediti). Banco Bpm tra gennaio e marzo ha visto un costo del rischio di 79 punti base, che include circa 40 punti base di componenti non core.

Possibile che, in un momento storico drammatico per imprese e famiglie, concedere prestiti sia divenuto non rischioso? E’ evidente che gran parte dei crediti rischiosi è passata dalle banche a qualcun altro.

 

L’ingresso in campo di Sace e Mediocredito Centrale

“Nel 2020 il rischio è passato dalle banche allo Stato attraverso il fondo di garanzia”, sintetizza un operatore dell’industria degli npe. “I finanziamenti sono stati erogati con disinvoltura, con criteri neanche da subprime”. Tradotto: la massa di nuovi npl e utp che arriverà una volta scadute le moratorie sui crediti, stimata da diversi osservatori in circa 100 miliardi nei prossimi due anni, non sarà un problema delle banche, bensì del contribuente.

Per offrire sostegno al mondo produttivo, nel corso del 2020 sono stati approvati diversi decreti legge – Cura Italia, Liquidità, Rilancio –, che hanno immesso nel sistema una massa di liquidità enorme.

I tre provvedimenti, in sintesi, potenziano l’intervento del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese sui finanziamenti richiesti dalle imprese al sistema creditizio; fortemente semplificate le pratiche da espletare. Il governo ha messo in campo due soggetti come garanti del credito erogato alle imprese: Sace, focalizzata sulle aziende di grandi dimensioni attraverso Garanzia Italia, e Mediocredito Centrale (Mcc), che garantisce i crediti alle pmi.

Secondo quanto comunicato da Sace (che riferisce i risultati della rilevazione effettuata dalla task force costituita per promuovere l’attuazione delle misure a sostegno della liquidità adottate dal governo, di cui fanno parte, oltre alla stessa Sace, ministero dell’Economia e delle Finanze, ministero dello Sviluppo Economico, Banca d’Italia, Associazione Bancaria Italiana e Mcc), al 21 maggio scorso le moratorie attive riguardano prestiti del valore di circa 144 miliardi (il 52% del totale delle moratorie accordate), a fronte di 1,4 milioni di sospensioni accordate, tra famiglie e imprese.

Superano quota 173 miliardi le richieste di garanzia per i nuovi finanziamenti bancari per le micro, piccole e medie imprese presentati al fondo di garanzia per le pmi. Attraverso Garanzia Italia di Sace i volumi dei prestiti garantiti raggiungono quota 24,1 miliardi di euro, su 2.186 richieste ricevute.

Le moratorie attive a favore di società non finanziarie riguardano prestiti per circa 115 miliardi. Per quanto riguarda le pmi sono ancora attive sospensioni ai sensi del Cura Italia per 115 miliardi. La moratoria promossa dall’Abi riguarda al momento 4 miliardi di finanziamenti alle imprese.

Sono attive moratorie a favore delle famiglie a fronte di prestiti per 23 miliardi di euro, di cui 4 miliardi per la sospensione delle rate del mutuo sulla prima casa. Le moratorie dell’Abi e dell’Assofin rivolte alle famiglie riguardano circa 3 miliardi di prestiti.

Sulla base della rilevazione settimanale della Banca d’Italia, si stima che le richieste di finanziamento pervenute agli intermediari abbiano continuato a crescere fino al 21 maggio, a 1,75 milioni, per un importo di finanziamenti di circa 152 miliardi. Sono stati erogati prestiti a fronte di oltre il 92% delle domande. E a fronte di circa il 94% nel caso delle domande per prestiti interamente garantiti dal fondo.

Il Mise e Mcc segnalano che sono complessivamente 2.178.822 le richieste di garanzie pervenute al fondo di garanzia nel periodo dal 17 marzo 2020 al 2 giugno 2021 provenienti da imprese, artigiani, autonomi e professionisti, per un importo complessivo di oltre 173,5 miliardi di euro.

In particolare, le domande arrivate e relative alle misure introdotte con i decreti Cura Italia e Liquidità sono 2.168.093, pari ad un importo di circa 172,5 miliardi di euro. Di queste, 1.147.088 sono riferite a finanziamenti fino a 30.000 euro, con percentuale di copertura al 100%, per un importo finanziato di circa 22,3 miliardi di euro, e 524.257 garanzie per moratorie, per un importo finanziato di circa 14,4 miliardi. Al 3 giugno sono state accolte 2.158.475 operazioni, di cui 2.147.986 ai sensi dei decreti Cura Italia e Liquidità.

Salgono a circa 24,1 miliardi di euro, per un totale di 2.186 operazioni, i volumi complessivi dei prestiti garantiti nell’ambito di Garanzia Italia. Di questi, circa 8,9 miliardi di euro riguardano le prime nove operazioni garantite attraverso la procedura ordinaria prevista dal decreto Liquidità, relativa ai finanziamenti in favore di imprese di grandi dimensioni, con oltre 5mila dipendenti in Italia o con un valore del fatturato superiore agli 1,5 miliardi di euro.

Crescono, infine, a 15,2 miliardi di euro circa i volumi complessivi dei prestiti garantiti in procedura semplificata, a fronte di 2.176 richieste di garanzia, attraverso la piattaforma digitale dedicata a cui sono accreditate oltre 250 banche, istituti finanziari e società di factoring e leasing.

Il rischio di credito in capo al contribuente

Tanti numeri per confermare quanto detto sopra: dall’esplosione del Covid-19 a oggi il credito è stato erogato a piene mani e chiudendo tutti e due gli occhi. Per offrire un termine di raffronto, il fondo di garanzia per le pmi di Mcc tra marzo 2020 e metà aprile 2021 ha visto più che decuplicare, rispetto al 2019, le richieste di garanzia accolte, pari a circa 1,86 milioni.

Mcc, in un report di fine aprile, sottolinea che “le risorse così immesse nel sistema… hanno il pregio di non impattare nell’immediato sul rapporto debito pubblico/Pil”, perché l’impatto dipende “dal rischio di escussione”, ovvero “dalla qualità del credito sottostante”.

Ecco il nodo: posto che il rischio di credito è in capo al contribuente, qual è la qualità dei prestiti? Mcc assicura che viene effettuata una valutazione preliminare accurata e un monitoraggio costante, “calcolando la perdita attesa derivante dalla mancata restituzione dei prestiti”.

Allo stato, lo stock di crediti deteriorati, monitorato da Bankitalia, non è aumentato in modo significativo. Gli osservatori, però, ritengono che ciò sia dovuto, da un lato, all’inerzia del trend di riduzione degli npe da parte delle banche, un processo di pulizia iniziato nel 2015; dall’altro lato, le moratorie hanno rinviato la palla in avanti.

Nel report del dicembre scorso sugli npe italiani, intitolato “The calm before the storm”, PwC scrive che “lo scoppio della pandemia porterà nuovo fermento nel mercato, che alcuni iniziavano ad ipotizzare in run-off”.

La prima metà del 2020, grazie alla spinta inerziale dei cinque anni precedenti, ha visto i volumi lordi di npl attestarsi a 130 miliardi, in calo di oltre il 60% rispetto al picco di 341 miliardi. Ma, precisa PwC, la crisi economica causata dal Covid-19 “avrà sicuramente un impatto significativo”, nell’ordine di 60-100 miliardi di nuovi inflow nei prossimi 24 mesi. Ma il rischio vero è l’incremento degli utp, conseguenza dell’impatto economico dei lockdown e delle misure di distanziamento sociale su alcuni settori (turismo, ristorazione e retail, in particolare).

 

PwC sottolinea che le transazioni di npe sono proseguite nel 2020 (circa 30 miliardi) e che nel triennio 2021-2023 se ne registreranno per 30-40 miliardi l’anno. Il mercato dei non performing, che fino al 2015 era quasi inesistente, c’è. E le banche si sono attrezzate per trovare la soluzione più adatta per i portafogli di crediti problematici.

Secondo Pier Paolo Masenza, financial services leader di PwC, però, servono “soluzioni sistematiche per permettere a banche, investitori e imprese di far ripartire l’economia nazionale. In questo senso si stanno muovendo le iniziative di numerose sgr, che hanno in rampa di lancio fondi pronti a sostenere e a ristrutturare i crediti delle imprese classificate come utp”.

Traballa il castello delle gacs

Le somme sul mercato npe nel 2020 le ha tirate l’Osservatorio Credit Village: 483 operazioni, per un controvalore (in termini di gross book value) di 42,5 miliardi. Dati sostanzialmente in linea con il 2019 (491 deal, per 46,3 miliardi), segno che il mercato è rimasto vivace.

L’anno scorso sono state strutturate dieci cartolarizzazioni assistite dalla garanzia pubblica (gacs), per un ammontare di 15,8 miliardi. Con le gacs si torna al nodo del contribuente come pagatore di ultima istanza. Introdotte nel 2016 per creare un mercato che non esisteva, rinnovate nel maggio 2019 per due anni, le garanzie sulla cartolarizzazioni delle sofferenze dovrebbero, nelle intenzioni del Tesoro, essere estese per altri due anni: è in corso da inizio anno una trattativa con la Commissione Ue per ottenere il via libera. Indiscrezioni di stampa indicano come imminente il semaforo verde di Bruxelles.

Secondo le stime dell’Osservatorio Credit Village, dal 2016 le gacs (35 cartolarizzazioni) hanno consentito alle banche di deconsolidare crediti per 87,2 miliardi.

Come stanno andando? Male, stando a quanto riferiscono diversi osservatori. In capo a soli dieci servicer, la gestione dei portafogli con gacs non sta procedendo come previsto dai piani. I tassi di recupero dei crediti sono inferiori alle stime, in alcuni casi nettamente al di sotto. E si prevede che questi portafogli torneranno sul mercato nei prossimi mesi.

 

 

Scope Ratings stima che nel primo trimestre di quest’anno il 68% (17 sulle 25 monitorate) delle operazioni di cartolarizzazione effettuate in Italia abbia registrato tassi di recupero inferiori alle previsioni di budget. Di conseguenza, secondo Scope supereranno quota dieci gli anni necessari per ammortizzare il costo delle transazioni.

Le gacs costituiscono il punto di inizio del processo di pubblicizzazione dei rischi sui crediti, culminato con i decreti del 2020. Anche perché, sottolineano diversi operatori del settore, i titoli mezzanine di alcune cartolarizzazioni sono stati sottoscritti da soggetti pubblici (Cdp, Poste, Mps e Amco).

Sulle gacs, chiosa un osservatore, “è stato costruito un castello di carta, che sta per crollare”. Le garanzie pubbliche sulle cartolarizzazioni delle sofferenze, peraltro, costituiscono un problema di dimensioni relativamente modeste. Ben altra portata hanno i crediti garantiti da Sace e Mcc.

Servicer pronti a soccorrere Mcc

Mediocredito Centrale, in particolare, essendo focalizzato sulle pmi ha in pancia i crediti più rischiosi. E, di conseguenza, le chiavi per decidere il destino di una fetta rilevante delle imprese italiane. Se, come è certo, una parte consistente di questi crediti è già da considerarsi utp, servono competenze e struttura per gestire il processo di ritorno in bonis. E, dicono gli osservatori del mercato, Mcc attualmente non ha né le prime, né l’altra.

Il piano 2021-2023 della banca presieduta da Massimiliano Cesare e guidata dall’amministratore

Bernardo Mattarella – News dedicate alla finanza e al mondo legale – financial and legal news

delegato Bernardo Mattarella (nella foto a destra), approvato a febbraio, dice poco o nulla sulla strategia per gestire la massa di crediti catapultata sul capo del gruppo dal fondo di garanzia per le pmi.

La parabola di Mcc ricorda quanto fece il governo con Sga, ora Amco: prendere una struttura preesistente e usarla per affrontare un’emergenza; all’epoca si trattò di trovare chi comprasse gli npe delle banche venete e venne tirata fuori dal cassetto una realtà che si occupava della liquidazione dei crediti del Banco di Napoli; nel 2020 l’emergenza era iniettare in fretta e furia liquidità alle imprese.

Così come l’attuale Amco ha dovuto dotarsi rapidamente di management, quadri e personale operativo per la gestione dei portafogli, reclutando professionalità sul mercato (con un effetto distorsivo sulla concorrenza, accusano i competitor privati), allo stesso modo Mcc pare destinata a colmare il gap di competenze e di struttura di cui fatalmente soffre un soggetto che a fine 2020 gestiva un portafoglio crediti di 2,051 miliardi (+31% rispetto al 2019), con erogazioni annue pari a 1,007 miliardi (+ 81%). E che quasi certamente si ritroverà tra le mani una massa moltiplicata per molte volte per effetto delle garanzie pubbliche.

Oltretutto, Mcc si trova a dover gestire l’integrazione tra Banca Popolare di Bari e  Cassa di Risparmio di Orvieto, che, a detta della stessa banca, “assorbirà parte significativa delle forze gestionali”. Insomma, Cesare e Mattarella hanno le mani pienissime.

Per ovviare alla carenza di personale competente diversi servicer hanno bussato alle porte di Mcc per “mettere in piedi una struttura di diagnostica preventiva delle aziende a cui ha erogato credito”, riferisce uno degli interlocutori. Perché, aggiunge lo stesso manager, “se prima del Covid al fondo di garanzia accedeva la creme de la creme, ora è diventato strumento di distribuzione di pace economica e sociale”.

La gestione degli npe e la politica economica

Una pace economica e sociale che, però, non può passare attraverso una moratoria a tempo indefinito. Il degrado della situazione finanziaria di tante aziende, quindi la caduta della qualità del credito, è lo snodo fondamentale per uscire dalla crisi e rilanciare l’economia.

E’ un tema di politica economica, perché il rischio di credito grava soprattutto, quasi esclusivamente, sullo Stato. Le banche, come dice con malizia un manager di un servicer, “hanno fatto l’abbraccio mortale”, scaricando sulle spalle pubbliche una parte consistente dei crediti traballanti. Ma “non si poteva fare altro”.

Ora si pone il tema di come eludere il calendar provisioning della Bce, che rischia di calare come una mannaia sulle speranze di ripresa dell’economia. Una strada, suggerita da diversi operatori, è pescare gli utp nel calderone dei crediti garantiti da Sace e Mcc – un lavoro che necessita di competenze industriali – e cartolarizzarli tutti, perché i veicoli delle securitisation non sono soggetti al calendar provisioning.

E’ chiaro che una soluzione di sistema di questa portata andrebbe concordata con la Bce. Gli operatori di mercato sono ottimisti: a Bruxelles si sono dimostrati propensi a battere ogni strada per salvare le imprese.

Bocciata, invece, l’idea – suggerita da Ignazio Visco – di creare una piattaforma europea per la gestione dei crediti problematici. Sarebbe “un disastro”, nelle parole di un manager, mettere assieme filiere imprenditoriali e industry finanziarie molto differenti.

Ciò che deve essere chiaro è che la nuova partita degli npe si gioca prevalentemente sui tavoli della politica. E il conto di una gestione deficitaria lo pagheremo tutti.



 

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