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È notizia riportata dai principali quotidiani la morte della sig.ra “Anna”, deceduta in Fiuli Venezia Giulia il 28 novembre 2023, mediante suicidio assistito fornito dal Servizio sanitario nazionale. La vicenda è certamente caratterizzata da molta sofferenza, presente nell’esperienza della malattia irreversibile, del limite della scienza medica e della morte della persona, che coinvolge anche chi resta; a ciò consegue necessariamente un atteggiamento di massimo rispetto per la persona e per la sua famiglia. Alcune riflessioni appaiono però necessarie, anche (e soprattutto) al di là del caso specifico, dal momento che a livello procedurale e di sistema sembrano rilevarsi alcune “zone grigie” che sollevano seri dubbi sul rispetto oggi in Italia non solo di quanto statuito dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 242 del 2019 ma, soprattutto, del principio dell’indisponibilità della vita umana.

La paziente, prima in Italia a ottenere il suicidio assistito “offerto” – insieme alla strumentazione necessaria per attuarlo – dal Servizio sanitario nazionale, era affetta da patologia neurologica progressiva irreversibile (sclerosi multipla). Come si legge nella relazione della Commissione medica multidisciplinare istituita su indicazione del Tribunale di Trieste[1] pubblicata dall’Associazione Coscioni, la patologia comportava la completa assistenza nello svolgimento delle attività della vita biologica: ciò determinava un “distress esistenziale riferito molto elevato a causa della assoluta dipendenza nelle ADL” – e cioè nello svolgimento delle activities daily living -, “giudicata dalla paziente intollerabile”. È “la dipendenza da terzi che determina per la Signora fonte di sofferenze psicologiche ritenute dalla stessa intollerabili”.  La morte della signora è avvenuta attraverso suicidio assistito, e cioè tramite autosomministrazione del farmaco letale fornito, insieme alla strumentazione necessaria, dalla stessa azienda sanitaria, previa verifica delle condizioni effettuata dalla Commissione medica multidisciplinare citata e dal Nucleo Etico per la pratica clinica dell’azienda sanitaria.

Gli aspetti problematici sottesi alla vicenda, riferiti alla stessa acclamata “applicazione” della sentenza n. 242 del 2019 della Consulta, sono in realtà molteplici e rilevanti. Alcuni di essi sono stati già stati affrontati nei mesi scorsi dal Centro Studi Livatino, con il contributo, in particolare, di Giacomo Rocchi[2].

Innanzitutto, si ricorda un primo punto centrale in materia di fine vita: la Corte costituzionale non ha sancito alcun diritto al suicidio assistito, né reso disponibile la vita umana, né ha previsto un diritto all’erogazione gratuita di prestazioni di suicidio assistito, con relativo obbligo di prestazioni da parte del servizio sanitario nazionale. Nella sentenza del 2019 si legge che la “declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici.”

La Corte costituzionale, sia nell’ordinanza n. 207 del 2018, sia nella sentenza n. 242 del 2019, ribadisce il principio dell’indisponibilità della vita umana. Anche nella più recente sent. n 50 del 2022, la Corte ricorda che non esiste nel nostro ordinamento un diritto alla morte. Da ciò “discende «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».”

La Corte con la sentenza n. 242 ha, invece, riconosciuto, non senza critiche[3], una circoscritta area di non punibilità in situazioni individuate analiticamente[4], in riferimento a specifici casi di “mantenimento artificiale della vita”, portati alla luce dagli sviluppi della tecnologia in medicina, nei quali sarebbe già possibile il rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale in atto (“quali ventilazione, idratazione e alimentazione artificiale”) e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua in base all’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017[5]; in attesa di un eventuale intervento del legislatore nazionale per la disciplina della materia, ha affidato a strutture pubbliche del servizio sanitario la sola verifica delle condizioni indicate per la non punibilità e delle eventuali modalità di esecuzione – “le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili” -, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo al servizio sanitario[6].

Tale verifica dei requisiti e delle modalità è chiaramente posta nell’ottica di garanzia e nello spirito di cautela indicato nella decisione per le situazioni di particolare vulnerabilità, cariche di difficoltà e sofferenza, le quali lo stesso art. 580 c.p. (come anche l’art. 579 c.p.) intende proteggere. È, nella stessa prospettiva prudenziale, che viene posto il pre-requisito dell’aver coinvolto il paziente in un percorso di cure palliative, a garanzia della sua autonomia e dignità. La Corte, infatti, afferma che “deve quindi essere sottolineata l’esigenza di adottare opportune cautele” affinché la non punibilità nelle circostanze indicate del suicidio assistito “ ..non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sofferenza…Si cadrebbe, altrimenti nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza aver prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative”.

È, però, proprio tale compito di verifica delle condizioni, a tutela dei pazienti fragili e nella sofferenza, affidato al Servizio sanitario nazionale dalla sentenza n. 242 del 2019, a sollevare alcuni dubbi sulla sua effettività, con il rischio di una grave violazione non solo della decisione della Consulta ma, soprattutto, del diritto alla vita e alla cura dei pazienti più vulnerabili.

Nel caso, ad esempio, della sig.ra Anna, la paziente non sembra aver intrapreso un percorso di cure palliative, pre-condizione e “pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente” (ord. 207 del 2018 e sent. 242 del 2019): ciò si legge chiaramente nella Relazione della Commissione citata[7].  Si ricorda, a tal proposito, che la legge n. 38 del 2010, ancora poco attuata, ha indicato la via umana della cura globale (fisica, psicologica, spirituale e sociale, anche per il caregiver) nella sofferenza e nella malattia. Da quanto riportato nella Relazione non sembra essere stata assicurata l’effettività del diritto alle cure palliative per la paziente con una possibile lesione del diritto alla cura, diritto fondamentale ex art. 32 Cost.

Non solo. Ad essere disattesa sembra essere anche la verifica del requisito indicato dalla Corte nella sentenza n. 242 con la lettera c): l’essere tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale[8].

La Commissione chiamata ad accertare le condizioni della sig.ra Anna afferma: “la Commissione in aderenza agli attuali orientamenti della giurisprudenza di merito, ritiene che la signora, allo stato degli odierni accertamenti, pur non sussistendo una condizione di dipendenza da macchinari o trattamenti tali per cui la sospensione degli stessi determinerebbe un decesso della paziente a breve termine, sia comunque sottoposta a trattamenti di sostegno vitale dovendosi riconoscere nel caso di specie: una dipendenza meccanica non esclusiva garantita attraverso l’impiego di supporto ventilatorio (CPAP) nelle ore di sonno notturno… una dipendenza assistenziale garantita attraverso l’esecuzione di clisteri evacuativi giornalieri per l’espletamento dell’alvo, senza i quali andrebbe incontro a un quadro di occlusione intestinale… una assoluta e completa dipendenza da un’altra persona (caregiver) per l’espletamento dei propri bisogni vitali (igiene personale, gestione della continenza, vestirsi, alimentarsi in modo autosufficiente, idratarsi, possibilità di passare da una posizione all’altra e di camminare in modo indipendente), necessari (in buona parte) alla stessa sopravvivenza della paziente”.

La paziente non sembra rientrare, pertanto, nella condizione indicata dalla Corte con la lettera c), e cioè in un “mantenimento artificiale della vita”, così come specificamente e analiticamente individuato nel par. 2.3 della sentenza n. 242. La Commissione ritiene, infatti, tale requisito ormai interpretabile in senso estensivo, richiamando a fondamento di tale ricostruzione la giurisprudenza del caso di Davide Trentini, paziente affetto da sclerosi multipla, morto con il suicidio assistito in Svizzera nell’aprile 2017. La Corte d’appello di Massa e la Corte d’Assise d’appello di Genova, chiamate a giudicare la punibilità in base all’art. 580 c.p. di chi ha agevolato il suicidio in Svizzera del Trentini, hanno affermato che la condizione del mantenimento in vita attraverso trattamento di sostegno vitale sarebbe da interpretare in maniera ampia, non indicando, pertanto, le sole “macchine” (“quali ventilazione, idratazione e alimentazione artificiale” come affermala Consulta) ma anche qualsiasi trattamento sanitario: sia la terapia farmacologica, sia l’assistenza di personale sanitario o non sanitario, sia l’ausilio di qualsiasi macchinario medico.  Come ben si evince, con tale interpretazione è possibile far rientrare nella condizione individuata con la lett.c) qualsiasi assistenza nella malattia, anche quella offerta dal familiare, che riguarderebbe, pertanto, qualsiasi paziente, senza esclusione alcuna.

L’errore che, però, si cela dietro a tale interpretazione, è collegato proprio al riferimento alla giurisprudenza di merito e, in particolare, alle decisioni dei giudici per il caso di Trentini. L’interpretazione ampia, offerta in quella circostanza dalle Corti era ricollegata al diverso regime previsto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 per i fatti precedenti alla pubblicazione della pronuncia nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica: le condizioni procedimentali non potevano essere, ovviamente, richieste, tal quali, in rapporto ai fatti anteriormente commessi, che sono antecedenti addirittura all’entrata in vigore della legge n. 219 del 2017. Il Giudice delle leggi nella sentenza n. 242 ha affermato, a tal proposito, che le condizioni individuate non sarebbero risultate “in pratica, mai puntualmente soddisfatte. Ciò impone una diversa scansione del contenuto della pronuncia sul piano temporale. Riguardo ai fatti anteriori la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti”.

Per tale motivo l’interpretazione estensiva dei requisiti previsti dalla Consulta per la non punibilità per i fatti avvenuti prima della sentenza n. 242 de 2019 (e, addirittura, prima della legge n. 219 del 2017), non sarebbe applicabile per i fatti commessi dopo la sentenza[9]: ciò non consentirebbe neanche il richiamo alle sentenze che applicavano un così diverso regime come fondamento per ampliare l’area di non punibilità individuata dalla Corte.

Tali circostanze, qui solo accennate, già appaiono sufficienti per evidenziare il rischio di uscire fuori dal terreno indicato analiticamente dalla Corte costituzionale per la non punibilità per il reato dell’aiuto al suicidio: una pena, quella prevista dall’art. 580 c.p., come ha ricordato anche il Giudice delle leggi, che ha come finalità ultima la tutela della vita umana, anche quando il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi con l’ausilio di altri. L’ordinanza n. 207 del 2018 ha affermato che “l’incriminazione dell’aiuto al suicidio è funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più fragili e vulnerabili..assolve lo scopo di perdurante attualità di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenza”. Il requisito del mantenimento in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, così come specificamente individuato nel par. 2.3 della sentenza del 2019, sembra, pertanto, una condizione indispensabile per delimitare “i casi in cui l’aiuto al suicidio diviene non punibile” nel rispetto del quadro delineato dalla Corte costituzionale[10].

Si avverte, pertanto, la necessità, rivolta alle aziende sanitarie ma anche a tutti i soggetti coinvolti, a vario titolo, nelle vicende legate ai soggetti più vulnerabili, di porre una particolare attenzione a quanto effettivamente indicato dalla Consulta, adottando tutte le opportune cautele  per evitare premature rinunce alla vita e, soprattutto, per evitare di cadere nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza prima assicurare l’effettività del diritto alla cura globale del paziente e al caregiver.

Oggi le condizioni indicate dalla Corte costituzionale nelle sentenze più recenti sul fine vita rischiano di essere disattese e violate nella pratica, anche attraverso una ingiustificata applicazione estensiva dei requisiti per la non punibilità, operata per via amministrativa, in grado di vanificare la finalità di garanzia e di limite presenti nella sentenza n. 242 del 2019. L’area di non punibilità individuata dalla Consulta rischia di diventare, così, non solo non circoscritta, ma addirittura senza limiti: la disponibilità della vita umana non sarebbe solo teorizzata, ma attuata attraverso prestazioni offerte dal servizio sanitario nazionale.

Francesca Piergentili
Docente di Diritto Costituzionale, Università Europea di Roma.


[1] L’ordinanza del Tribunale di Trieste chiedeva di verificare se la paziente: a) fosse affetta da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psichiche ritenute non tollerabili; b) fosse pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; c) mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.

[2] G. Rocchi, Diritto al suicidio per tutti? Considerazioni a margine del suicidio assistito di “Anna” in Friuli Venezia Giulia, CSL, 4 settembre 2023, consultabile alla pagina web https://www.centrostudilivatino.it/diritto-al-suicidio-per-tutti/

[3] Cfr. in particolare A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunciata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), in www.giustiziainsieme.it , 2019, 3; Id, Fraintendimenti concettuali e utilizzo improprio delle tecniche decisorie nel corso di una spinosa, inquietante e ad oggi non conclusa vicenda (a margine di Corte cost. n.207 del 2018), in Consulta OnLine, 1/2019, 92 ss.

[4] Il giudice delle leggi fa riferimento ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. La Consulta ha in ogni caso posto un preciso pre-requisito a qualunque scelta di fine vita, rappresentato dal “coinvolgimento in un percorso di cure palliative”. La Corte, inoltre, afferma: “La declaratoria di incostituzionalità attiene, infatti, in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza”. Sulla sentenza v., in particolare, E. Bilotti, Ai confini dell’autodeterminazione terapeutica. Il dialogo tra il legislatore e il giudice sulla legittimità dell’assistenza medica al suicidio, in Corr. giur., 4/2019, 457 ss

[5] L’art. 2, comma 2, della legge n. 219 afferma: “Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o  di

imminenza di morte, il medico deve  astenersi  da  ogni  ostinazione irragionevole nella somministrazione  delle  cure  e  dal  ricorso  a trattamenti inutili  o  sproporzionati.  In  presenza di  sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico  puo’  ricorrere  alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”. Sulla legge, nella copiosa dottrina, v. in particolare G. Razzano, La legge n. 219/2017 su consenso informato e DAT fra libertà di cura e rischio di innesti eutanasici, Torino, 2019; G. Baldini, La legge 219/17 tra molte luci e qualche ombra, in Dirittifondamentali.it, Fasc. 1/2019

[6] La Corte afferma la non punibilità nei casi indicati “sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

[7] Si legge nella Relazione, nell’accertamento tecnico riguardante la visita palliativistica, che “sino a questo momento alla paziente non è mai stato proposto un percorso di cure palliative”.

[8] Su tale requisito è stato giustamente osservato che “nel disegno della Corte Costituzionale, tutto cambia quando ricorre l’ultima condizione: la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Solo tale condizione delimita realmente i casi in cui l’aiuto al suicidio diviene non punibile e garantisce che lo stretto spiraglio aperto dalla sentenza n. 242 non si trasformi in una porta spalancata”, v., G. Rocchi, Diritto al suicidio per tutti?, cit.

 

[10] G. Rocchi, Diritto al suicidio per tutti?, cit., il quale afferma, inoltre, che il requisito “garantisce che lo stretto spiraglio aperto dalla sentenza n. 242 non si trasformi in una porta spalancata”.



 

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