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In materia di revocatoria fallimentare sono state affermate due diverse (e antitetiche) concezioni:
la teoria c.d. indennitaria (o concezione monistica), la quale, «sulla base di una visione monistica delle azioni revocatorie, ordinaria e fallimentare, ritiene l’eventus damni – enunciato come presupposto oggettivo, per la prima di esse, dall’art. 2901 cod. civile – necessario anche per la seconda, nonostante l’omesso richiamo dell’art. 67 legge fallimentare […] la lesione delle ragioni creditorie non è conseguenza diretta e indefettibile dell’atto, bensì è solo presunta, iuris tantum, dall’insolvenza e passibile, quindi, di prova contraria» (Cass. civ., Sez. I, 26 febbraio 2010, n. 4785);
la teoria c.d. redistributiva (o concezione dualistica), la quale, «partendo dalla distinzione oggettiva fra i due tipi di azione revocatoria (concezione dualistica), nega che il danno specifico costituisca un elemento essenziale della fattispecie in esame, rinvenendo genericamente il pregiudizio nella violazione stessa del principio della par condicio creditorum, alla cui ratio è informata la redistribuzione fra tutti i creditori della perdita derivante dal fallimento […] la revocatoria fallimentare potrebbe, in quest’ottica, investire financo atti che non abbiano determinato alcun pregiudizio per il ceto creditorio; o che abbiano addirittura incrementato il patrimonio dell’imprenditore fallito» (Cass. n. 4785/2010 cit.).

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno sostenuto la natura distributiva e non indennitaria – dell’azione prevista dall’articolo 67 della Legge fallimentare: «l'”eventus damni” è “in re ipsa” e consiste nel fatto stesso della lesione della “par condicio creditorum”, ricollegabile, per presunzione legale assoluta, all’uscita del bene dalla massa conseguente all’atto di disposizione; […] la circostanza che il prezzo ricavato dalla vendita sia stato utilizzato dall’imprenditore, poi fallito, per pagare un suo creditore privilegiato […] non esclude la possibile lesione della “par condicio”, né fa venir meno l’interesse all’azione da parte del curatore, poiché è solo in seguito alla ripartizione dell’attivo che potrà verificarsi se quel pagamento non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati, che successivamente all’esercizio dell’azione revocatoria potrebbero in tesi insinuarsi» (sentenza n. 7028 del 28 marzo 2006).

Con l’ordinanza n. 19187 del 6 luglio 2021 la Prima Sezione civile della Corte di cassazione ha affrontato la questione della sorte – in termini di (eventuale) inefficacia e conseguente revocabilità (al ricorrere dei relativi presupposti) in sede fallimentare – dell’operazione di anticipo su fatture regalata in conto corrente nella specifica ipotesi di mancato riaccredito, da parte della banca, sul conto corrente ordinario del cliente – successivamente dichiarato fallito – della somma incassata dal terzo, utilizzata dalla medesima banca per l’estinzione di pregresse passività del correntista.

Il quesito sul quale i Supremi Giudici sono stati chiamati a pronunciarsi ha riguardato, segnatamente, la (eventuale) anormalità di detta operazione ai sensi e per gli effetti dell’articolo 67, comma 1, n. 2, della Legge fallimentare.

La norma de qua sancisce la revocabilità degli «atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento» ove compiuti nel c.d. periodo sospetto (id est, «nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento»).

L’istituto bancario ricorrente ha preliminarmente descritto la concreta modalità di articolazione della «operazione di anticipo fatture per smobilizzo crediti»: «vi è un iniziale addebito con causale “utilizzo credito” su un conto corrente espressamente dedicato a tale operatività […] per un importo pari al finanziamento accordato (solitamente nella misura del 80% dell’importo indicato in fattura). In contropartita, il pagamento effettuato dal debitore del cliente della banca viene accreditato a chiusura dell’operazione sul “conto ordinario” […] con la medesima causale “utilizzo credito”, mentre la parte non oggetto di anticipo viene messa a disposizione del cliente sul “conto ordinario”».

I Supremi Giudici hanno ritenuto che «l’anomalia dell’operazione posta in essere dalla Banca […] per estinguere precedenti passività accumulate dal cliente» non sia l’effetto del meccanismo attraverso cui avviene l’erogazione dell’anticipazione a fronte dello smobilizzo dei crediti: «gli affidamenti per smobilizzo crediti (a differenza del contratto di apertura di credito in conto corrente) non attribuiscono al cliente della banca la facoltà di disporre con immediatezza di una determinata somma di danaro, ma sono esclusivamente fonte, per l’istituto di credito, degli obblighi di accettare, entro un predeterminato ammontare (e quindi non oltre), i titoli che l’affidato presenterà e di anticipare a quest’ultimo la relativa provvista (vedi sul punto Cass. n. 6575/2018)».

Ciò che conferisce carattere di anormalità a un’operazione di anticipazione bancaria è l’utilizzo, da parte della banca, della somma di denaro incassata dal soggetto debitore del correntista per estinguere passività di quest’ultimo, utilizzo reso palese dal mancato riaccredito, sul conto corrente ordinario del medesimo cliente, della somma incassata dal terzo.Anormalità cui consegue la revocabilità dell’operazione ai sensi e per gli effetti dell’articolo 67, comma 1, n. 2, della Legge fallimentare.

Conclusivamente la Prima Sezione ha enunciato il seguente principio di diritto: «Nell’ambito di un’operazione di anticipo su fatture regolata in conto corrente, il concreto mancato riaccredito da parte della banca sul conto corrente ordinario della cliente della somma incassata dal terzo, debitore del proprio cliente, ed il suo utilizzo per estinguere pregresse passività del correntista, costituisce una modalità “anomala” di estinzione dell’obbligazione integrante una causa di revoca a norma dell’art. 67 comma 1° n. 2 legge fall.».

 

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