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Con tale pronuncia, la prima sezione civile della Corte di Cassazione si è espressa in merito al tema della fallibilità dell’imprenditore agricolo, offrendo al lettore un interessante excursus normativo in materia.

Le norme di riferimento sono numerose: tra le stesse meritano di essere annoverati l’art. 2135 c.c., il d.lgs. n. 99/04, il d.P.R. n. 917/86 (TUIR) sulla nozione di reddito ai fini fiscali.

L’art. 2135 c.c. comma 1, così come è stato riscritto dal d.lgs. n. 228/01, definisce “agricolo” l’imprenditore che esercita, anche alternativamente, le attività di “coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”. La novella normativa ha introdotto un nuovo modo di intendere l’imprenditoria agricola:

  • È stato ampliato l’ambito di riferimento, non più circoscritto al bene terra ma comprensivo dell’acqua e del bosco;
  • È stato abbandonato il tradizionale riferimento all’utilizzo di un fondo e, oggi, le occupazioni intrinsecamente agricole puntano sul concetto di cura e sviluppo di un “ciclo biologico”. In questo modo il criterio della necessità del fondo è sostituito dal criterio della mera possibilità del suo utilizzo ai fini della produzione del bene: il prodotto è agricolo in quanto astrattamente ottenibile adoperando un terreno;
  • La disponibilità di un terreno costituisce una evenienza e non più un elemento assoluto: è ben possibile, oggi, ottenere prodotti agricoli “fuori terra” (ricorrendo, cioè, a tecniche che prescindono dall’utilizzo del fondo);
  • È stato rimosso dall’art. 2135 c.c. il vocabolo “bestiame” ed è stato sostituito da “animali”, così ampliando il novero delle specie e consentendo di ricomprendere nell’alveo applicativo dello statuto agrario anche le tipologie di allevamento slegate dalla presenza di un fondo.

Il d.lgs. n. 99/04 ha introdotto la figura dell’imprenditore agricolo professionale (IAP), definendolo come il soggetto che, in possesso di competenze e conoscenze professionali ai sensi del Regolamento CE n. 1257/99, si dedica alle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c. (l’accertamento del possesso di tali requisiti compete alle regioni).

Tale qualifica è stata estesa anche alle società di persone, cooperative e di capitali, anche a scopo consortile, che sono considerate imprenditori agricoli professionali:

  • quando lo statuto prevede quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c.;
  • e quando sono in possesso di ulteriori requisiti previsti dalla legge, come la presenza di un socio o di un amministratore con la qualifica di IAP.

I commi 4, 5 e 5bis del decreto legislativo specificano che è previsto il riconoscimento delle agevolazioni tributarie in materia di imposizione indiretta e creditizie a favore dell’imprenditore agricolo professionale persona fisica, sia che svolga la sua attività individualmente che in una struttura societaria.

Inoltre, si specifica che i ricavi derivanti dalla locazione o dall’affitto devono essere marginali rispetto a quelli derivanti dall’attività agricola esercitata e la concessione in affitto dei terreni e relativi fabbricati rurali strumentali deve avere scopi agricoli, nel senso che anche l’affittuario deve svolgere un’attività agricola e non altre attività: nel caso in esame, la società si era trasformata da SPA in SRL e aveva modificato il proprio oggetto sociale al fine di dedicarsi esclusivamente all’attività di silvicoltura. Per ciò che concerne l’ambito di applicazione dell’art. 2 e la sua incidenza sul tema della fallibilità o meno della società agricola va osservato che il riferimento al superamento della soglia del 10% ed alla strumentalità degli immobili rileva ai fini della “distrazione dall’esercizio esclusivo delle attività agricole” e tale concetto non sembra ricollegabile a profili collegati alla fallibilità della società agricola, quanto piuttosto all’estensione del regime fiscale agevolato.

Per tale motivo la Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso, ribadendo che l’art. 2 del d. lgs. n. 99/04 “integra una disciplina di carattere fiscale che non rileva ai fini della individuazione dei requisiti da valutare per accertare la fallibilità o meno di una società agricola”.

La seconda questione affrontata dalla Suprema Corte concerne l’assoggettabilità o meno al fallimento della società agricola, che deve essere indagata seguendo la interpretazione delle norme del codice civile e della legge fallimentare. In particolare, la Cassazione precisa che le società costituite secondo le forme previste dal codice civile e aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili a fallimento indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività: tali società, a differenza di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale, acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione e non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività di impresa (in altre parole, mentre l’imprenditore commerciale è identificato dall’effettivo esercizio dell’attività, nel caso delle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione).

Nel caso in esame, la ricorrente sostiene che la riscossione dei canoni non fosse sufficiente a qualificarla come imprenditore commerciale. In proposito, il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità ritiene che la sottrazione dell’impresa agricola al fallimento non può significare che lo svolgimento di un’attività agricola pone al riparo dal fallimento. Tale orientamento maggioritario evidenzia che “l’affermazione per cui l’attività agricola svolta dall’impresa sottrarrebbe quest’ultima al fallimento anche laddove l’attività commerciale fosse svolta in misura prevalente rispetto alle attività agricole tipizzate dall’art. 2135 primo comma cod. civ. si pone, infatti, in manifesto contrasto con l’art. 1 della legge fall., il quale assoggetta alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale”.

Ne deriva che l’esonero dall’assoggettamento alle procedure fallimentari non può ritenersi incondizionato e viene meno quando non sussiste il collegamento funzionale con il ciclo biologico, inteso come fattore produttivo, o quando risulta accertato in sede di merito che l’impresa agricola societaria abbia esercitato in concreto attività commerciale in misura prevalente sull’attività agricola contemplata in via esclusiva dall’oggetto sociale.

L’apprezzamento in concreto dei requisiti di fallibilità è rimesso al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, purché sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Napoli ha affermato – senza che il suo accertamento sia stato confutato dalla ricorrente – che nel periodo di riferimento il quantum di riscossione dei canoni da parte della società debitrice è stato assolutamente preponderante rispetto all’attività agricola, così evidenziando come le attività di locazione immobiliare (e non solo) siano state sproporzionate rispetto a quelle di silvicoltura.

Ecco che la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’Appello di Napoli.

 

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