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La particolarità della sentenza 17 ottobre 2019, n. 26285 (testo in calce) della terza sezione civile della Suprema Corte risiede nel fatto che, dichiarato il ricorso inammissibile, i giudici hanno inteso esaminare – quantunque ormai inutile ai fini del giudizio de quo – le questioni di diritto processuale implicate nella controversia. Le quali sono state evidentemente ritenute così importanti da meritare lo sforzo di enunciazione del principio di diritto (sarebbe meglio dire, per questa pronuncia: dei numerosi principi di diritto) “al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi”. E così quella che doveva essere una sentenza come molte altre, si è trasformata effettivamente in un mini-trattato di diritto processuale, in un testo ricco e articolato che deve essere letto e metabolizzato, potendo candidarsi a divenire punto di riferimento e/o orientamento per tutti i soggetti che si occupano a vario titolo di esecuzione forzata.

Intanto, le questioni trattate in punta di diritto sono riassumibili schematicamente nel rapporto sussistente tra l’opposizione c.d. ‘pre-esecutiva’ (ex art. 615, comma 1, c.p.c.) e quella all’esecuzione (ex art. 615, comma 2, c.p.c.). Secondo il tradizionale orientamento della Suprema Corte – sostanzialmente confermato anche dopo le numerose riforme intervenute tra il 2005 e il 2016 (di cui, con riguardo agli artt. 615 e 616 c.p.c., è fornita una puntuale ricostruzione diacronica) – il rapporto tra le due forme di opposizione è di ‘litispendenza’. Salve le precisazioni di cui al seguito.

La Suprema Corte sostiene che, al di là delle ingannevoli apparenze, il petitum dell’opposizione pre-esecutiva e dell’esecuzione coincidano, in quanto parimenti tendenti all’accertamento della insussistenza, in tutto o in parte, del diritto del creditore di procedere in executivis. L’unica differenza tra le due opposizioni è che nella prima tale diritto è stato solo preannunciato, mentre nella seconda è già stato attuato. E se l’esito vittorioso, per l’opponente al precetto, si risolve nel riconoscimento della mera inesistenza del diritto del creditore ad agire esecutivamente, tale valutazione di illegittimità non può non riguardare, a maggior ragione, l’esecuzione forzata avviata nelle more della definizione di quel giudizio

L’identità della causa petendi è invece, per la S.C., da accertare di volta in volta, in considerazione delle ragioni dedotte dall’opponente. Certamente non si potrà configurare litispendenza quando l’opposizione esecutiva si fondi sull’impignorabilità dei beni, per la semplice ragione che il debitore risponde delle obbligazioni assunte con tutti i propri beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.), ma solo dopo che l’esecuzione ha avuto inizio sono individuati i beni sottoposti a vincolo pignoratizio. Per il resto, le ragioni poste a fondamento delle due tipologie di opposizioni sono potenzialmente coincidenti.

Ecco perché l’approdo giurisprudenziale favorevole all’inquadramento del rapporto in termini di litispendenza è confermato.

C’è però da precisare che le ipotesi di litispendenza restano comunque piuttosto circoscritte: essa si applica ovvero si dichiara, infatti, quando le cause siano pendenti dinanzi a due uffici giudiziari diversi, mentre per le cause identiche o connesse pendenti dinanzi al medesimo ufficio trovano piuttosto applicazione gli artt. 273 e 274 c.p.c., che consentono e prescrivono la riunione. Per non parlare delle fattispecie in cui ragioni di ordine processuale impediscono la riunione, in cui una causa sia pregiudiziale rispetto all’altra o sia già pervenuta a sentenza, che ricadono nel campo di applicazione degli istituti della sospensione ai sensi degli artt. 295 e 337 c.p.c.

Dunque i casi di opposizione pre-esecutiva pendente dinanzi a ufficio giudiziario diverso da quello presso cui è incardinata l’opposizione all’esecuzione, non sono così numerosi. In particolare, essi si verificano quando: a) il creditore dichiari la propria residenza o elegga il domicilio in un circondario dove si trovano beni del debitore diversi da quelli che saranno poi effettivamente pignorati; b) l’atto di precetto non contenga la dichiarazione di residenza, né l’elezione di domicilio e sia notificato al debitore in un luogo diverso da quello in cui sarà intrapresa l’azione esecutiva; c) il creditore effettui una elezione di domicilio ‘anomala’ e il debitore, nel proporre opposizione, aderisca a tale indicazione e neppure il giudice, d’ufficio, rilevi l’incompetenza territoriale. In tali ipotesi l’opposizione pre-esecutiva dovrà instaurarsi dinanzi ad un giudice diverso da quello territorialmente competente per l’opposizione all’esecuzione e il giudice dell’esecuzione, nella misura in cui le ragioni delle opposizioni siano identiche, dovrà dichiarare la litispendenza tra le due cause. Altra ipotesi si dà quando l’opposizione a precetto appartenga alla competenza per valore del giudice di pace.

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A questo punto viene dettato il primo di una lunga serie di principi di diritto: “Sussiste litispendenza tra l’opposizione a precetto e l’opposizione all’esecuzione successivamente proposta avverso il medesimo titolo esecutivo, quando le due azioni sono fondate su fatti costitutivi identici, concernenti l’inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata, e sempreché le cause pendano dinanzi a giudici diversi. Invece nell’ipotesi – più probabile –  in cui le due opposizioni, riassunta la seconda nel merito, risultino pendenti innanzi al medesimo ufficio giudiziario, delle stesse se ne dovrà disporre la riunione, ai sensi dell’art. 273 c.p.c.; ovvero, qualora ciò non sia possibile per impedimenti di carattere processuale, bisognerà sospendere pregiudizialmente la seconda causa, ai sensi dell’art. 295 c.p.c.”. Ed ulteriormente: “L’opposizione a precetto e l’opposizione all’esecuzione successivamente proposta avverso il medesimo titolo esecutivo, fondate su identici fatti costitutivi e pendenti, nel merito, innanzi al medesimo ufficio giudiziario, vanno riunite d’ufficio, ai sensi dell’art. 273 c.p.c., ferme restando le decadenze già maturate nella causa iniziata per prima”.

Successivamente l’indagine si addentra sempre di più nelle disposizioni e si concentra sul rapporto tra provvedimenti interinali assunti nella opposizione al precetto e quelli emanati nell’opposizione all’esecuzione; i primi destinati a produrre una ‘sospensione esterna‘, i secondi a generare una ‘sospensione interna‘. La prima, di cui all’art. 615 comma 1 c.p.c.., è analoga quanto a tutela a quella che, anteriormente alla riforma del 2005, veniva offerta al debitore precettato mediante l’art. 700 c.p.c.; analoga nel senso e nella misura in cui con essa il patrimonio del debitore viene protetto dall’apposizione di vincoli conservativi ed espropriativi che possano portare ad esecuzione forzata, essendo l’efficacia del titolo esecutivo, appunto, sospesa. La seconda (sospensione interna) opera invece ai sensi dell’art. 624 c.p.c. e non incide sul titolo esecutivo bensì sul singolo processo espropriativo nel cui ambito è pronunciata (‘interna’, dunque, alla specifica azione esecutiva intrapresa dal creditore). Qui il singolo processo entra in stallo ma il creditore può intraprendere altre azioni esecutive sulla base del medesimo titolo. Conseguentemente, in caso di sospensione esterna, il debitore non deve proporre un ricorso ai sensi dell’art. 615, comma 2 c.p.c. per contestare la proseguibilità dell’azione esecutiva e il giudice dell’esecuzione, dopo aver dichiarato la sospensione dell’esecuzione ex art. 623 c.p.c., non deve fissare un termine per l’introduzione del giudizio di merito ex art. 616 c.p.c., perché in tale evenienza prosegue il giudizio nel cui ambito è stata disposta la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo. Anzi, come espresso nel penultimo principio di diritto enunciato nella sentenza, “l’unico giudizio che le parti sono tenute a coltivare è quello, già introdotto, di opposizione a precetto, rispetto al quale una nuova causa si porrebbe in relazione di litispendenza”.

Pertanto, l’avvio dell’azione esecutiva non impedisce al giudice preventivamente adito in sede di opposizione pre-esecutiva  di provvedere sull’istanza di sospensione che gli sia stata già rivolta in base all’art. 615, comma 1, c.p.c. In aggunta ai principi già enunciati, viene affermato che “il giudice dell’opposizione a precetto cui sia stato chiesto di disporre la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c,, non perde il potere di provvedere sull’istanza per effetto dell’attuazione del pignoramento o, comunque, dell’avvio dell’azione esecutiva, sicché l’ordinanza sospensiva da questi successivamente pronunciata determinerà ab esterno la sospensione ex artt. 623 e 624 c.p.c. di tutte le procedure esecutive nel frattempo instaurate”. E “il pignoramento eseguito dopo che il giudice dell’opposizione a precetto ha disposto la sospensione dell’esecutività del titolo è radicalmente nullo e tale invalidità deve essere rilevata, anche d’ufficio, dal giudice dell’esecuzione“.

La Suprema Corte stabilisce altresì l’ulteriore principio per il quale, quando sono contemporaneamente pendenti l’opposizione a precetto e l’opposizione all’esecuzione già iniziata sulla base di quello stesso precetto, “i due giudici hanno una competenza mutuamente esclusiva quanto all’adozione dei provvedimenti sospensivi di rispettiva competenza, nel senso che, sebbene l’opponente possa in astratto rivolgersi all’uno o all’altro giudice, una volta presentata l’istanza innanzi a quello con il potere “maggiore” (il giudice dell’opposizione a precetto), egli consuma interamente il suo potere processuale e, pertanto, non potrà più adire al medesimo fine il giudice dell’esecuzione, neppure se l’altro non si sia ancora pronunciato“.

CASSAZIONE CIVILE, SENTENZA N. 26285/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF

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