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Il caso

La questione oggetto della pronuncia della Corte di Appello di Venezia prende le mosse dal ricorso promosso dall’Agenzia delle Entrate (AdE) mediante il quale si chiedeva che fosse respinta l’omologa di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182 bis, 182 septiesl. fall. nei confronti della società Alfa.

Tale società aveva depositato dinanzi al Tribunale di Vicenza ricorso prenotativo ex art. 161, comma 6, l. fall. per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo.

Il Tribunale assegnava, quindi, il termine per il deposito della domanda di concordato e Alfa inviava ai creditori, tra i quali l’AdE e l’INPS, la comunicazione di avvio delle trattative ex artt.182 bis e 182 septiesl. fall. per la definizione degli accordi di ristrutturazione del debito.

All’AdE – e all’INPS – veniva, pertanto, inviata la proposta di transazione fiscale e contributiva dei crediti tributari ex art. 182 terl. fall.

L’accordo si fondava essenzialmente sul risanamento dei debiti contratti con l’unico creditore ipotecario, con i creditori chirografari, sulla proposta di transazione fiscale da ultimo menzionata, nelle forme dell’omologa forzosa di cui all’art. 182 bis, comma 4, l. fall. e, in ogni caso, nell’estensione degli effetti dell’accordo forzoso raggiunto con l’AdE agli altri creditori pubblici.

In particolare, il piano di ristrutturazione dei debiti con continuità indiretta – con pagamento a 60 giorni dalla definitiva omologa – prevedeva anche la prosecuzione dell’attività di impresa in via indiretta, la dismissione del complesso aziendale, la dismissione di un bene immobile e l’immissione di nuova finanza sempre da parte di un terzo soggetto investitore.

Con riferimento all’immobile si segnala come l’offerta prevedesse la definizione a saldo e stralcio del debito avente natura ipotecaria.

È utile sottolineare come lo strumento giuridico di risoluzione della crisi individuato da Alfa fosse rappresentato da un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bisl. fall., c.d. a efficacia estesa, da proporre ai creditori rappresentanti il 60% dei crediti, con estensione dell’efficacia di tali accordi anche ai creditori non aderenti che appartenessero alla medesima categoria (essenzialmente costituita dai creditori pubblici).

Nel caso di specie, i crediti verso l’erario erano destinatari di una proposta di transazione fiscale che ne prevedeva il soddisfacimento in misura parziale (pari al 25%).

Come anticipato, l’Agenzia delle Entrate si opponeva alla omologa e anche il commissario giudiziale rilasciava un parere esprimendo una serie di criticità in ordine alla proposta di ristrutturazione.

Per tali ragioni, ai fini di una maggiore convenienza per i creditori e per tacitare le osservazioni critiche mosse dall’AdE e dal commissario giudiziale, Alfa richiedeva un ulteriore sforzo finanziario da mettere a disposizione del ceto creditorio.

La nuova finanza veniva messa a disposizione seguendo l’ordine delle cause legittime di prelazione e, per l’effetto della modifica del piano, la società ritirava la proposta di transazione contributiva avanzata all’INPS con la conseguenza che l’ente previdenziale veniva trattato come un creditore non aderente e, come tale, da pagare integralmente entro 120 giorni dall’omologa.

Le ragioni del ricorso

La società procedeva, quindi, al deposito del ricorso per l’omologazione degli accordi di ristrutturazione del debito conclusi con i propri creditori ex artt. 182 bis e 182 septiesl. fall., all’iscrizione presso il Registro delle imprese e alle notifiche ai creditori non aderenti appartenenti alla categoria dei creditori tributari-pubblici tra i quali l’AdE.

Quest’ultima provvedeva a trasmettere alla società il proprio dissenso alla proposta di transazione fiscale ritenuta inammissibile atteso che la scelta processuale della ricorrente avrebbe costretto l’Agenzia ad esprimersi nel più ristretto termine di trenta giorni previsto dall’art. 182 bisl. fall., termine di natura perentoria previsto per l’opposizione, di fatto impedendo/limitando la valutazione della proposta. Inoltre, secondo la ricostruzione dell’AdE, non ci sarebbero state trattative propedeutiche all’accordo, né prima del deposito del ricorso, né successivamente, in violazione dei principi di buonafede e correttezza. Ancora, si lamentava il fatto che non era stato possibile instaurare un contraddittorio con la ricorrente, avviare un confronto con gli advisors e la società in merito al piano, alla convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria, chiedere chiarimenti o integrazioni e sottoscrivere un eventuale accordo. Tale accordo, sempre a parere dell’Agenzia, avrebbe, infatti, dovuto contenere le clausole relative alle ipotesi di risoluzione, nonché all’imputazione di eventuali pagamenti.

Pertanto, secondo tale ricostruzione, l’unica alternativa rimasta sarebbe stata la semplice accettazione o meno della proposta così come formulata senza che fosse stato possibile valutare l’attivo della società e, quindi, l’alternativa fallimentare. Con la conseguenza che non si sarebbe potuto applicare il meccanismo del cram down e la contestuale richiesta di estensione degli effetti ai creditori non aderenti.

Il Tribunale, tuttavia, procedeva all’omologa dall’accordo di ristrutturazione del debito ritenendo, tra le altre cose, infondata l’opposizione – peraltro unica – dell’Agenzia delle Entrate in considerazione del fatto che il termine di 90 giorni entro il quale l’Agenzia avrebbe potuto comunicare di aderire o meno all’accordo risultava comunque decorso prima dell’assunzione della decisione.

Inoltre, secondo il Tribunale, la contestazione relativa all’insussistenza delle condizioni per potersi applicare il cram down fiscale doveva ritenersi priva di fondamento in quanto il senso della norma è proprio quello di poter procedere all’omologazione dell’accordo indipendentemente dall’esistenza o meno di una pronuncia espressa dall’Amministrazione finanziaria in merito alla proposta di transazione fiscale. Anche l’argomento dell’intempestività dell’iniziativa di Alfa, che avrebbe reso impossibile avviare le trattative, instaurare un contraddittorio e raggiungere un eventuale accordo, veniva ritenuto superato dal rilievo dell’attestatore per cui l’alternativa liquidatoria sarebbe stata comunque peggiorativa. Tale considerazione legittimava, dunque, l’applicazione del cram down erariale, ammissibile non solo in caso di silenzio, ma anche nell’ipotesi di diniego espresso da parte dei creditori pubblici.

Allo stesso modo veniva ritenuta infondata la tesi secondo la quale non sussisterebbero le condizioni per l’estensione di cui all’art. 182 septiesl. fall. per la mancanza del presupposto dell’esistenza necessaria di creditori formalmente aderenti appartenenti alla medesima categoria, in quanto l’applicazione del cram down riconfigura in voto positivo la mancata adesione o il voto negativo dell’Erario, con la conseguenza che sussistono comunque le condizioni richieste per l’estensione dell’accordo dall’art. 182 septiesl. fall.

L’AdE, quindi, proponeva reclamo deducendo in diritto l’illegittimità della richiesta di applicazione dell’art. 182 bis, 4 comma, l. fall. per l’insussistenza del presupposto della mancata adesione dell’Amministrazione e l’impossibilità di avviare le trattative, instaurare un contraddittorio con la ricorrente al fine di valutare l’alternativa fallimentare e sottoscrivere un eventuale accordo con le relative clausole, posto che il termine di 90 giorni dal deposito della proposta transattiva, entro il quale sarebbe dovuta pervenire l’adesione dell’Amministrazione finanziaria o degli enti previdenziali, non avrebbe dovuto ritenersi decorso nel momento in cui il ricorso per l’omologa era stato depositato.

Inoltre, l’AdE lamentava l’inapplicabilità del cram down e della contestuale richiesta di estensione ex art. 182 septiesl. fall. degli effetti ai creditori non aderenti non sussistendone le condizioni in quanto non vi sarebbero stati creditori aderenti al momento del deposito del ricorso per l’omologa e che l’Accordo non avrebbe potuto neppure essere oggetto di omologa forzosa da parte del Tribunale non essendo ancora decorsi i 90 giorni.

Come anticipato, dunque, con il secondo motivo l’AdE lamentava l’inapplicabilità del cram down in quanto, innanzitutto, le trattative sarebbero state interrotte nel momento stesso in cui veniva ricevuta la proposta di transazione e, quindi, mancherebbe il primo presupposto applicativo dell’182 septies l. fall. e cioè l’essere messi in condizione di partecipare alle trattative in buonafede e aver ricevuto una completa e aggiornata informazione sull’accordo. In secondo luogo, veniva lamentata l’inesistenza dell’ulteriore requisito richiesto per l’estensione degli effetti dell’accordo e cioè che i creditori aderenti appartenenti alla categoria rappresentino il 75% di tutti i creditori della medesima, mentre, nel caso di specie non sarebbe stata data all’AdE la possibilità di valutare la proposta e di aderire entro il termine di 90 giorni dal deposito della stessa.

Infine, si adduceva la modifica sostanziale della proposta di accordo intervenuta prima dell’omologa e la violazione dell’art. 182 bis, 8 comma, l. fall. senza che fosse stata rinnovata la procedura di voto e nuovamente acquisito il consenso da parte dei creditori già aderenti.

La decisione della Corte di Appello

Il primo motivo viene ritenuto infondato in quanto la Corte sostiene nella propria motivazione come debba ritenersi possibile depositare una domanda di omologa degli accordi di ristrutturazione del debito con transazione non approvata dai creditori istituzionali – Agenzia dell’Entrate – prima ancora che sia scaduto il termine di cui all’art. 182 bis, 4 comma, l. fall. non trattandosi di un termine dilatorio della presentazione della domanda, quanto piuttosto dell’adozione del provvedimento giudiziale conclusivo del procedimento di ristrutturazione del debito. Pertanto, la norma deve essere ritenuta perfettamente rispettata laddove il Tribunale fissi l’udienza di omologazione successivamente alla maturazione del termine di 90 giorni dal deposito della proposta, non potendo legittimamente pronunciarsi prima che lo stesso sia interamente decorso.

Questo ragionamento è, peraltro, in linea con la ratio della norma che, nel prevedere il termine di 90 giorni dal deposito della proposta di soddisfacimento per la formalizzazione dell’adesione, risponde all’esigenza di permettere ai soggetti istituzionali (ad es. AdE o INPS) di disporre di un periodo di tempo adeguato per poter assumere scelte consapevoli prima che il Tribunale si determini in via definitiva sull’omologa dell’accordo, ma non impedisce certamente il deposito della ricorso prima della scadenza del termine, né che l’Amministrazione possa determinarsi anche prima dello scadere del termine nel caso in cui ritenga di disporre già degli elementi necessari e sufficienti per potersi esprimere consapevolmente, come in effetti è avvenuto nel caso di specie.

Del resto, che l’AdE disponesse di tutte le informazioni necessarie per poter assumere una decisione consapevole in relazione alla proposta risultava evidente alla luce dell’opposizione all’omologa dell’accordo di ristrutturazione del debito nel quale viene argomentato in modo approfondito e diffuso nell’ambito dei motivi di ricorso esaminati in precedenza.

Pertanto, l’AdE ha dimostrato, nei fatti, di non avere bisogno di un termine superiore – i 90 giorni concessi per legge – per potersi esprimere nel merito della transazione, confermando, contrariamente a quanto sostenuto, di aver avuto a disposizione tutti gli elementi per poter giungere a una decisione consapevole, essendosi tutelata dapprima presentando il ricorso in opposizione all’omologa con motivazioni non di solo rito, ma anche di merito e, quindi, esprimendo un formale dissenso alla proposta.

Anche il secondo motivo viene ritenuto infondato in quanto, con riferimento alla considerazione secondo la quale le trattative si sarebbero interrotte nel momento stesso della ricezione della proposta transattiva formalizzata unitamente al Piano e alla Proposta venendo meno di conseguenza il requisito di cui all’art. 182 septies, 2 comma, l. fall., la Corte la ritiene non in linea con lo sviluppo dell’interlocuzione che si è sviluppata tra la società e l’AdE. Del resto, affinché gli effetti dell’accordo siano estesi ai creditori non aderenti che appartengono alla medesima categoria, individuata tenendo conto dell’omogeneità di posizione giuridica e interessi economici, è necessario che tutti i creditori appartenenti alla categoria medesima siano stati informati dell’avvio delle trattative, siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e abbiano ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, nonché sull’accordo e sui suoi effetti.

La Corte ritiene, altresì, errata la tesi dell’Agenzia secondo la quale la disposizione di cui all’art.182 septiesl. fall.richiederebbe la previa adesione formale dei creditori rappresentanti il 75% del valore dei crediti della categoria svantaggiata.

Questa interpretazione, a ben vedere, trascura di considerare come la sussistenza dei presupposti per l’operatività del meccanismo del cram down vada verificata prima che gli effetti dell’Accordo siano estesi ai creditori non aderenti, con la conseguenza che, per effetto della valutazione favorevole, la mancata adesione dell’Agenzia (sia espressa che tacita) venga riconfigurata in voto positivo, con ogni conseguenza legale e, quindi, anche ai fini dell’estensione degli effetti – nella specie dell’omologa forzosa della transazione fiscale non accolta) agli altri creditori appartenenti alla categoria dei creditori pubblici non aderenti. Inoltre, in relazione alla classe dei crediti tributari il voto rilevante non è quello espresso dal fisco, in quanto evidentemente illegittimo ove sia passibile di conversione forzosa da parte del Tribunale, ma quello risultante dal cram down. Del resto, non vi è ragione per la quale dovrebbe essere dato peso a un provvedimento illegittimo dell’Amministrazione finanziaria e non a quello, legittimo per definizione, dell’Autorità giudiziaria che riguarda la riforma dell’atto amministrativo da cui il voto deriva.

Ed invero, mentre gli altri creditori possono esprimere un voto, anche contrario al proprio interesse, ciò non è consentito ai creditori pubblici la cui azione è soggetta al principio della discrezionalità vincolata in base al quale l’AdE è tenuta a ricercare il miglior recupero del proprio credito alla luce della situazione del debitore, con la conseguente approvazione delle proposte convenienti rispetto alla liquidazione giudiziale e il conseguente rigetto di quelle non convenienti.

Anche il terzo motivo viene ritenuto infondato in quanto l’art. 182 bis, 8 comma, l. fall. deve ritenersi riferito al solo caso in cui, per effetto di una modifica di ordine sostanziale del Piano e delle Proposta, risulti in qualsiasi modo pregiudicata (in punto di minore offerta, ovvero in relazione a tempistiche di pagamento, o in ordine a diverse modalità di esecuzione del piano in ipotesi più rischiose o svantaggiose per il ceto creditorio) la posizione di tutti, o solo di alcuni, creditori. Tale circostanza, secondo la Corte, non ricorre nel caso di specie.

Ed invero, come nota il giudice di seconde cure alla modifica del Piano e della Proposta è conseguito un miglioramento del trattamento inizialmente previsto per i creditori, con la conseguenza che non vi sono diritti che ne risultino maggiormente compressi in modo tale da ritenere necessaria una nuova manifestazione di consenso: da qui l’irrazionalità di una nuova chiamata al voto dei creditori per esprimersi su una proposta migliore di quella sulla quale si erano già favorevolmente espressi.

Riferimenti normativi:

Art. 161l. fall.

Art. 182 bisl. fall.

Art. 182 terl. fall.

Art. 182 septiesl. fall.

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